Trovo entusiasmante il modo di prendere la canzone di chi vive in stato di crisi perenne. Amo la visione della solidarietà beffarda e consapevole di chi è preparato alla crudeltà del mors tua vita mea, imposto dalle fregature di questi giorni. Adoro chi scrive testi che vanno oltre la dichiarazione d’amore per la sinistra o la banale constatazione dei crudeli fatti quotidiani. Il Grande Sud evocato da Eugenio Bennato vive di tradizioni, sperimentazioni e analisi profonde di fatti storici e musiche che hanno assistito impotenti al succedersi di forzature secolari. Per il resto c’è chi ha già offerto un modo alternativo all’alternativa di condurre l’impegno e l’analisi in uno stato evolutivo avanzato e più consapevole dei limiti dei vari “venceremos”, “hasta la victoria”, “revolucion” e via dicendo. Non vorrei ridurre tutto a questa potenziale contrapposizione perché il tutto non si riduce ad una mia personale annotazione. Devo parlare di un disco che mi piace molto e che ha fatto il giro del solito circuito nazionale a gimkana tra librerie, radio indipendenti, concertini e sarabande spinti da una consistente carica gitana. La carica di chi a pranzo e cena spesso mangia polvere, amarezza e delusione. La carica di quegli stessi che, abituati al peggio, hanno una visione saggia, propositiva e consapevole delle proprie impossibilità, per andare a scanso degli equivoci, che in determinate situazioni significano solo guai.

Il Parto delle Nuvole Pesanti è stata sempre una band scaltra che ha corretto la dirittura del cantautorato impegnato degli anni ‘90 scanzonando desolazioni e ricchezze di spirito quando andavano di modi gli inni da primo maggio che, diciamolo, stavano bene a tutti e fomentavano un proselitismo imperniato su parole chiave e dedito ad un certo tipo di commercialità più o meno voluta. Una scelta d’identità, quella dei ragazzi di Calabria costituitisi a gruppo musicale folk rock a Bologna nel 1991.  Una carriera nata con un’idea, con una genuina ingenuità e con i capelli lunghi per il leader (chitarra e voce) Peppe Voltarelli. Da Alisifare a 4 Battute Di Povertà si sono susseguiti album che di volta in volta hanno mostrato una maturazione decisa e convincente delle capacità di contaminare e farsi impollinare, della produzione in studio (agli inizi davvero low-fi non voluto), delle architetture compositive. Arrangiamenti di volta in volta sempre più intensi e ricercati hanno segnato il momento di fama proprio delle 4 battute, acerrime e velenose introduzioni ad un rock spesso duro, a volte elettronico, ed infine innovativo con la tarantapunk del brano "Lupu".

A parere di chi scrive, la migliore esecuzione della bandistica combriccola del Parto è arrivata nell’anno 2000 con l’album Sulle Ali Della Mosca. In questa occasione Voltarelli & Co. si sono liberati della manta caratteristica e tipica da sardella western che ne aveva caratterizzato immagine e sonorità, per parlare un linguaggio musicale a stretto braccio con il vento dell’est e del mediterraneo orientale. Senza mai, assolutamente, mettere da parte ispirazioni calabre e la loro lingua madre, protagonista di un numero inferiore di episodi rispetto al solito, ma comunque protagonista.

C’è anche da dire, per chi ne volesse sapere un po’ di più, che il Voltarelli crooner di oggi forse è figlio proprio di questo disco, che lo vede interpretare con duttilità e naturalezza il variegato portfolio di estensioni e modalità vocali a coda di pavone, dalla diaframmatica "Viaggiatori" alla sinistrorsa "Andrebbe Bene Un Gelato Al Limone".

L’album. Dopo un ascolto complessivo e reiterato emergono chiare le matrici di questa release: la solita sperimentazione rockofona spinta in territori dove la chitarra supporta gli assoli dei fiati in una convulsiva distorsione fobica, il piglio alla Bregovic nell’impostazione di brani tarantolati a metà tra l’opera bandistica balcanica e i folklori del mar Ionio, la pratica e ringhiosa ricercatezza di un ordine strutturale che restituisce all’ascoltatore la composita facciata dei brani più complessi, o l’efficacia energica dei brani più ascoltabili. Infine, un songwriting che non ha la forza ribelle o sarcastica dei singoli cantautori di un certo retaggio, ma che punta su situazioni e atmosfere povere, come un piatto di pomodori secchi. Il gusto, giustappunto, non manca mai. Forse è difficile da intendere per chi non conosce quei paesi nascosti scientificamente rispetto alla costa, che denotano chiusura ed impotenza ma, come dire, aprire quelle situazioni alla curiosità del pubblico non era affatto cosa facile.

E così iniziano i sogni di piccole glorie con il pollice alto a bordo strada sulla canzone d’apertura "Prendo Il Vento", dalla pelle calda come quando sei in un treno arroventato senza aria condizionata e con i finestrini aperti a godere o soffrire dell’implacabile umidità del mare vicino. Si parla di "Terribili Momenti" superati con una spietata e famelica taranta rock sempre sottolineata da una fisarmonica impertinente. Si uniscono idealmente i territori essiccati dei Balcani, della Grecia e di Cipro con il singolo "Ciani" (per un certo lasso di tempo, sigla della trasmissione radiofonica Caterpillar), marcetta popolare di chi ha un destino infido a cui rispondere con tutti i propri espedienti. Funzionano anche le ballate cantautorali sulla stregua di "Suonano Parole", dall’eros soffuso. E, soprattutto, si balla con la tarantàska della già menzionata "Andrebbe Bene Un Gelato Al Limone", vortice groovy di bosniaca fattura che ribadisce il successo violento di "Lupu".

Non pretendo che piaccia anche a voi, ma credo proprio di poter dire che ci troviamo di fronte ad un importante momento della musica italiana. Probabilmente, uno dei più indipendenti.

Elenco tracce e video

01   Prendo il vento (03:28)

02   Viaggiatori (03:22)

03   Terribili momenti (03:23)

04   Messa (03:55)

05   Ciani (03:40)

06   Suonano parole (04:38)

07   Andrebbe bene un gelato al limone (03:12)

08   Le cose che mi restano (02:51)

09   Promenade de la mouche (02:20)

10   Cosa ci sarà nell'alba gelida (04:31)

11   Liberamente (04:11)

12   Ballo senza piedi (04:56)

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