Inizia dal synth-pop la storia degli Information Society, interpreti americani, di Minneapolis per la precisione, di un fenomeno tipicamente inglese. Rispetto a molti colleghi albionici il gruppo capitanato da Kurt Harland, una carriera divisa tra musica e videogames, proponeva un approccio decisamente più improntato sul groove e sull'energia rispetto alle stopposità plasticose e acremente dolciastre di stampo new-romantic tipiche di molti colleghi britannici. "Something On Your Mind", il loro singolo di maggior successo ne è il perfetto esempio, ma questo non rende quegli Information Society una realtà di particolare spessore o rilevanza, non è sicuramente di questo che voglio parlare, ma del coraggio di sapersi reinventare, del fregarsene altamente dei riscontri commerciali, di saper imprimere un salto di qualità ad un percorso artistico fino ad allora prescindibile e sicuramente destinato all'oblio.

Correva l'anno 1997, ne erano passati già cinque dal precedente album "Peace And Love Inc.", in cui cominciava ad affiorare distintamente l'idea di un'evoluzione da un synth-pop ormai considerato antidiluviano ad un dance-pop con sfumature techno. Un'operazione tentata negli stessi anni anche da Falco con il suo "Data De Groove", con medesimi esiti commerciali, vale a dire nulli. Tuttavia, la moderata evoluzione espressa da "Peace And Love Inc." si eclissa di fronte al totale cambio di rotta, alla rivoluzione di "Don't Be Afraid". Il passaggio a composizioni di durata media sui sei minuti abbondanti, infarcite di industrial, techno ed EBM portebbe quasi sembrare un salto nel buio, tuttavia ottimamente attuato e pianificato, non c'è poi tanto di cui sorprendersi se si considera il background tecnologico di Kurt Harland, di fatto unico mastermind di "Don't Be Afraid" ed unico superstite della linea-up originale del gruppo. Questo album è un'opera ambiziosa, complessa, eppure facile da assimilare e molto diretta; si tratta sostanzialmente di canzoni pop deformate, infarcite di orchestrazioni, bombardamenti di synth, battiti industriali; lunghi e dilatati passaggi strumentali conferiscono all'opera un particolare impatto filmico, e dopotutto "Don't Be Afraid" è pensato proprio come una colonna sonora per le nevrosi e le paranoie di un futuro degradato e degradante. Cambia la musicalità, ma lo scenario è del tutto paragonabile a quello evocato dai Killing Joke in "Extremities, Dirt And Other Repressed Emotions".

Con quel sound così elaborato, bombastico e magniloquente questo album potrebbe sembrare quasi l'opera di un clone paranoico e visionario di Jim Steinman; l'incedere marziale e tracotante di "Empty 3.0", lo slancio trionfale e un po' malato di "Closing In 2.0", la tensione strisciante di "On The Outside 2.1", l'ipnotica cantilena dal ritmo vagamente hip-hop di "Ending World 1.1" e "Seek300 1.1", che suona come il remix techno di una canzone dei primi Rammstein, con la stessa potenza muscolare. Questi cinque macigni, posti uno dopo l'altro in rapida successione, formano un continuum potentissimo, un'infezione virale di adrenalina; è musica che fomenta, che aumenta in battito cardiaco e la dilatazione delle pupille, indi per cui sconsiglio vivamente di ascoltarla mentre si guida, specialmente in mezzo al traffico, gli effetti potrebbero essere oltremodo nefasti; aggiungeteci pure una cover a tutta energia e rulli compressori elettronici di "Are Friends Electric?" di Gary Numan ed il cerchio si chiude.

A "Don't Be Afraid" non manca neanche un lato più psichedelico e straniante; "The Ridge 1.1", un lento malinconico e sognante chiude l'album dilatandosi per quasi dieci minuti, dando l'impressione di essere il mattino dopo un sogno particolarmente vivido ed intenso, le sensazioni di Adamo ed Eva un attimo dopo la cacciata dall'Eden, una sensazione di smarrimento in qualcosa di grande ed indistinto, una luce bianca che tutto irradia e tutto confonde. "Ozar Midrashim 1.1" invece è uno strumentale in cui l'alienazione regna sovrana, orchestrazioni angosciose, cori austeri e solenni e battiti senza posa. Inserito nella colonna sonora di "Legacy Of Kain: Soul Reaver", un videogame a cui sono molto legato affettivamente, rappresenta benissimo l'infinita caduta in un'abisso senza fine, opprimente, un incubo industriale riletto in chiave gotica; è la rappresentazione perfetta per un paesaggio dell'anima, mentre "The Sky Away 2.0", interpretata da una sensuale e sulfurea voce femminile è l'ideale distorto del paradiso secondo Kurt Harland, su queste percussioni solenni, su questo andamento stisciante ed obliquo si può immaginare un'afterlife di assoluta libertà, un mondo parallelo dalle possibilità illimitate.

Insomma, è un album che stimola parecchio la fantasia questo "Don't Be Afraid", ogni canzone è una gemma dai molteplici riflessi, un trip che regala sempre qualche sorpresa inaspettata, ed in questo mi ricorda molto "Unbehagen" di Nina Hagen. La stessa voce di Kurt Harland, veramente nulla di eccezionale in una canzone pop standard in questo contesto appare assolutamente perfetta, quella di un Virgilio che accompagna l'ascoltatore nel suo personale mondo parallelo, o un Cappellaio Matto maestro di cerimonie in una folle fantasia se preferite. Comunque lo si voglia inquadrare, "Don't Be Afraid" rimane un'esperienza spiazzante e mozzafiato, la capacità magistrale di innestare melodie pop in un contesto che pop non lo è neanche un po', la vividità dei paesaggi sonori che si imprimono nella mente dell'acoltatore, non solo nelle orecchie, su molteplici piani diversi. L'opera ha un suo fascino esoterico, il suo carico di simbolismi e metafore; rovine post-industrali e sfere stroboscopiche, wastelands e fertili paradisi, pianeti inesplorati e trappole della mente.

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