Non c'è 1 senza 2. Penso sia questa la frase che fa da traino all'ascolto dell'ultimo lavoro dei neoproggers britannici IQ. A cinque anni dal dignitoso Frequency (è ormai dai primi anni '90 che gli IQ fanno passare 4 e ultimamente anche 5 anni fra un disco e l'altro), con ancora una volta un nuovo tastierista - Neil Durant degli Sphere3 - e con i ritorni dei due membri storici Paul Cook (dopo alcuni anni di assenza) e Tim Esau (bassista dei primi quattro album del gruppo, John Jowitt ha lasciato la band dopo circa vent'anni di permanenza), esce "The Road of Bones", decimo lavoro in studio della band.

E cosa volevo dire con l'incipit? Andiamo con ordine. Il disco è stato pubblicato in più versioni: una standard con un solo disco composto dalle 5 tracce principali, un'edizione limitata con un secondo cd contenente altre 6 tracce inedite e una deluxe con un ulteriore terzo disco contenente due ulteriori inediti ma soprattutto versioni demo e live delle tracce del primo cd. Premetto che non ho mai avuto simpatia per edizioni limitate, bonus tracks e robe simili, le ho sempre considerate delle impurità all'interno di uno studio album in quanto inquinano lo stesso con materiale non facente parte dell'opera originale - il più delle volte trattasi di materiale di scarto - e che spesso inganna il consumatore che così arriva a pensare che quell'elemento sia parte integrante dell'opera; solitamente prima di inserire una nuova uscita nel mio hard disk esterno è mia consuetudine rimuovere tutte ste robine ed assaporarmi il disco nella sua regular edition. Ma nonostante questo... "The Road of Bones" l'ho voluto ascoltare nella sua edizione doppia e penso che abbia senso soltanto se ascoltato in questa versione; non dico quella deluxe dove gran parte del materiale del terzo disco sono demo e live ma quella speciale doppia direi assolutamente sì. Semplicemente perché non penso si possa considerare bonus un disco che contiene esclusivamente materiale inedito per un totale di 6 tracce (contro le 5 del primo) e 49 minuti di musica nuova in più e per di più maggiormente creativa e sperimentale rispetto agli standard della band. Effettivamente pare un po' una presa per il culo, seppur benevola. Sembra quasi che l'intenzione della band fosse quella di far concentrare l'attenzione degli ascoltatori sul primo disco, dalle sonorità più classiche, e distogliere invece l'attenzione dalla maggior ricercatezza del secondo, come se quel riuscito tentativo di rinnovamento fosse soltanto una parentesi "in omaggio", un qualcosa a cui non dar troppo corda, da godere come chicca ed archiviare presto. Ci si può dibattere a lungo ma io renderò giustizia all'opera recensendola nella sua versione in doppio cd.

Non sono molto d'accordo con chi sostiene che gli IQ non abbiano spostato di una virgola il proprio sound in trent'anni. I primi due album oppure "Dark Matter" avevano un sound molto di vecchio stampo, i due di fine ‘80 invece erano più commerciali e più ottantiani, "Ever" aveva un sound più delicato e romantico, "Frequency" ha atmosfere più dark, ecc. Un'affermazione del genere può starci riferita a nomi come Threshold, Neal Morse e Flower Kings ma non per gli IQ, anche se è vero che colleghi neo-prog come Marillion e Pendragon hanno cambiato ben più radicalmente di loro.

Su "The Road of Bones" possiamo dire che segue la strada delle atmosfere più oscure evocate da "Frequency" ma anche con molti riferimenti a "Subterranea"; in più aggiunge suoni nuovi, specialmente nel secondo disco, dove vi sono cupe sperimentazioni elettroniche alquanto inusuali per la band. Oltre a questo si affacciano nell'IQ sound riff un tantino più duri (senza mai esagerare) a conferma dell'approccio più oscuro che la band sta acquisendo. Siamo di fronte ad un tentativo piuttosto riuscito da parte della band di dare nuova linfa al proprio sound più di quanto lo abbia fatto finora. Penso che il nuovo tastierista Neil Durant si debba prendere un pizzico di merito a tal proposito. Se già in "Frequency" la presenza di un uomo diverso dal solito, Mark Westworth, donò suoni nuovi ora l'ulteriore cambio ne porta ancora di nuovi. Mentre da molti seguaci di una band i cambi di formazione sono sempre accolti in malo modo io invece li vedo sempre in maniera positiva, in quanto l'uomo nuovo può portare nuova linfa e nuove idee alla band. Ottima prestazione anche del rientrante bassista Tim Esau, che fornisce linee di basso mai invadenti ma ben udibili e in ogni caso perfettamente amalgamate.

Ad aprire il disco ci pensa "From the Outside In": brano abbastanza diretto, non molto dinamico, basato su una ritmica non particolarmente elaborata, su riff duri ma non troppo e sui suoi tenebrosi tappeti di tastiere, molto in linea col disco precedente; il momento più cool del brano è la parte centrale dove possiamo udire dei suoni quasi "cibernetici" che spiazzano l'ascoltatore al primo ascolto. È solo un'ottima opener ma con la title-track "The Road of Bones" arriva già un piatto veramente forte, per di più con un incedere atipico per la band: il brano infatti ha due volti, delicato e angoscioso nella prima parte e aggressivo nella seconda; la prima poggia infatti su un delicatissimo tappeto di tastiera su cui intervengono linee di basso più che mai essenziali e su cui lo stesso tastierista interviene con dei bellissimi suoni cristallini, il tutto con un approccio quasi al limite del trip-hop, poi però entra in scena una chitarra con riff non invadenti ma comunque insolitamente aggressivi e parti di tastiera ben più forti, quasi come a scaricare una rabbia inizialmente soppressa. E arriva così il momento della suite, "Without Walls": parte lenta con delicate tastiere, poi diventa più forte con decisi riff di chitarra a far da traino e poi di nuovo una parte più soft con tastiere sognanti e inserti acustici prima della parte successiva più movimentata, fino alla più lenta ma intensa outro. "Ocean" è invece relativamente breve ed ha un sound denso e coinvolgente, con gli ottimi suoni di tastiera e la sua melodia brillante e coinvolgente, quasi "estiva"; personalmente mi ha ricordato parecchio "Closer" dal precedente album. A chiudere il primo cd (e quindi la regular edition) c'è l'ottimo crescendo di "Until the End": eh sì, si tratta proprio di un brano in crescendo, parte infatti lento e sognante con arpeggi di chitarra dal sapore quasi orientaleggiante accompagnati da pregevoli tastiere, poi diventa più ritmato con potenti melodie fino ad una parte più veloce scandita da ottime linee di basso, per arrivare poi alla lenta outro guidata da delicati tocchi pianistici e passaggi acustici.

Il primo disco alla fine non riserva grosse sorprese, sì, ha un paio di spunti originali che contribuiscono comunque nel complesso a dare quella nuova linfa alla proposta del gruppo ma ben poco sono rispetto a ciò che ci aspetta nel secondo cd (che ripeto, mi rifiuto di considerare bonus); è proprio il secondo il piatto forte del ristorante "The Road of Bones"! Lo si capisce già da quando parte "Knucklehead": quegli effetti elettronici e quei suoni quasi tribali, quasi new age, non sono certo un qualcosa che ci saremmo aspettati da loro; e non bastasse il brano sfiora anche il progressive metal, con riff martellanti inusuali per la chitarra di Mike Holmes e comunque con una melodia più che mai oscura. La strumentale "1312 Overture" sembra invece essere un chiaro omaggio a "YYZ" dei Rush: la cadenza ritmica dei colpi di batteria è incredibilmente simile, chi ama il terzetto canadese sicuramente avrà indirizzato automaticamente la propria mente lì; anche qui non mancano spunti geniali, come ad esempio i particolari passaggi di synth dal suono quasi "filtrato". Sorprende anche l'intro di "Constellations", basata su freddi effetti elettronici, dal sapore quasi industrial che potrebbe vagamente ricordare i loop dei Nine Inch Nails; tuttavia il brano mantiene un'impronta abbastanza tradizionale segnata tuttavia da melodie oscure e caratterizzata da un ottimo drumming, seppur non molto dinamico, del rientrante Paul Cook. Arrivano però i due brani più marcatamente inusuali. "Fall and Rise" è una vera e propria incursione nell'ambient, un brano dalle atmosfere sognanti e dai suoni molto vari, abissali ed eterei allo stesso tempo, con Neil Durant sicuramente protagonista anche se meriterebbe menzione anche Tim Esau, che con le sue linee di basso morbide e dal sapore vagamente fusion contribuisce non poco a definire l'atmosfera del brano. Anche se il vero e proprio balzo dalla sedia devo ammettere di averlo compiuto con "Ten Million Demons": un loop elettronico quasi alla Depeche Mode fa da traino ad un brano che vuoi per il ritmo da saltellamento sul posto ai concerti (sembra fatto apposta), vuoi per le orchestrazioni poste sistematicamente in determinati momenti, vuoi per alcuni inserti di hand clapping presenti ricorda immediatamente "Uprising" dei Muse (confrontare per credere); inoltre una melodia così catchy non la si sentiva dai tempi di "Are You Sitting Comfortably", siamo di fronte al più tipico caso di brano criticato e bollato come pacchiano dal progger purista (non il mio caso). A chiudere l'album ci pensa "Hardcore" che colpisce ancora una volta con riverberi elettronici che fanno venire subito in mente "Sleep Together" dei Porcupine Tree; brano che conferma ulteriormente le sonorità più dark degli ultimi IQ.

Arrivati alla fine dell'ascolto dell'intero set di due dischi l'idea che ci si fa è quella di una band sì legata al proprio sound ma che cerca anche di inserire elementi nuovi. Spero vivamente che quanto sentito soprattutto nel secondo disco non sia soltanto una parentesi ma sia davvero l'inizio di una nuova fase per il gruppo, spero che quest'album sia soltanto l'anello di congiunzione fra passato e ipotetico futuro della band e che in futuro continuino seriamente a stupire.

In ogni caso gli IQ hanno dato la dimostrazione di come si possa, pur avendo alle spalle ormai 30 anni di carriera, sfornare ancora un album seriamente ispirato e che non si limita a ripiegare nel già sentito. Anzi, io mi sbilancerei anche e lo indicherei come il loro album migliore e più completo, almeno a pari merito con "Subterranea" ("Ever" immediatamente sotto). L'anno 2014 è ancora soltanto a metà, non tutte le uscite del settore sono state da me ascoltate, ma al momento la palma di album prog dell'anno va a loro. Probabilmente gli Opeth li supereranno ma nulla toglie che quest'album avrà sicuramente sorpreso molti fan della band, me compreso. Che vadano avanti così!

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