Confessioni di un nostalgico: a volte si è così impegnati a scavare nel passato, come un archeologo, alla ricerca del classico irrinunciabile o della perla perduta, da dimenticare che in superficie comunque la vita continua, ci si diverte, ci si esprime, si crea. Fortunatamente, di tanto in tanto qualche suono più interessante del solito mi fa alzare il capo, facendomi scoprire che in fondo la bellezza è sempre lì che mi aspetta.

Mi succedeva così quasi venticinque anni fa, quando deluso dalla piega presa dal metallo mi ritrovai quasi senza neanche accorgermi negli anni 70. Allora, a riportarmi nel presente fu la visione del video di "Grace" di Jeff Buckley, che mi travolse piacevolmente, lasciandomi senza fiato. A riportarmi al presente, oggi, ci pensa Isaac Gracie, un altro giovane cantautore dalla voce magica e dedito al rock più schietto, e le analogie finiscono qui (anche se in rete si divertono a fare paragoni).

Gracie, innanzitutto, è inglese, e nonostante le palesi influenze d'oltre oceano c'è un suo modo di essere compassato e squisitamente vintage che lo tiene saldamente ancorato al Vecchio Mondo. Gracie, inoltre, non si affida all'esplosiva esuberanza vocale di Buckley, né sgomita per rappresentare il nuovo a tutti i costi, anzi, la sua musica si potrebbe definire anche piuttosto facilmente: tracciate una linea che colleghi Nick Drake con Nick Cave, magari passando per i REM, gli Smiths e i Libertines (o anche qualcosa dai primi Radiohead, quelli precedenti a "Ok Computer") e vi sarete fatti un'idea abbastanza precisa di ciò che ascolterete.

Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma il tutto è fatto così bene che Isaac Gracie rapisce come una brezza leggera, carica del sottile profumo del mare (del Nord?), o come un mattino limpido all'inizio della primavera. E, soprattutto, la sua musica ha una qualità che nel panorama odierno spesso stento a trovare, e cioè una grande sincerità, una rara onestà nel raccontarsi che non viene mai meno, anche al costo di risultare ripetitivo. Qualità che si sentono innanzitutto nella sua voce: uno strumento incantevole, un baritono (finalmente!) pulito, ben impostato, denso di armoniche, incredibilmente espressivo anche senza abbandonarsi a urla e ghirigori vari. Una voce che diventa veicolo di brani tutto sommato semplici, ma che sanno scavare a fondo nell'animo proprio perché altrettanto profondamente sentiti proprio dal loro autore.

Si può essere ad esempio colpiti dal rock quasi folk di "Running on Empty", vago sapore anni 80 e un ritornello capace di risuonare a lungo anche a brano terminato; oppure ci si può abbandonare alle numerose ballate, fra cui spiccano "Terrified", brano d'apertura dell'album e inno al passaggio all'età adulta, l'esile racconto per voce e chitarra classica di "Hollow Crown", o "Reverie", magico brano in 6/8 che invece chiude il lavoro, nel quale Gracie si sovraincide in armonie che paiono scivolare al rallentatore in ricordi intimi e delicati. Ci sono brani più robusti, come "All in My Mind" e le sue schiette venature quasi grunge (no, non i Nirvana, più alla Chris Cornell ai tempi dei Temple of the Dog), o "The Death of You and I", vagamente jazzata, che piacerebbe sicuramente a Quentin Tarantino, per poi bastonare con il ritornello aggressivo e sorprendere con ritmi latini sul finale. "Silhouettes of You" , che non sfigurerebbe affatto in un almum come "The Bends" dei Radiohead, è quasi un manifesto per Gracie, che canta "I'm tired of living in the shadows" non da depresso, ma con una gran voglia di andare avanti, di emergere, di dare compimento e forma alle proprie emozioni. La produzione, a questo proposito, lo aiuta in maniera esemplare, tenendosi ben lontana dai mille suoni e birignao elettronici che annacquano gran parte del rock contemporaneo e puntando invece all'essenziale senza mai essere dimessa.

Di sicuro, quello in cui si muove Gracie è un territorio un po' pericoloso per un artista giovane come lui, i brani rischiano di diventare troppo "self-centred", faticando a volte a coinvolgere pienamente l'ascoltatore, o di diventare ripetitivi ("Telescope", ad esempio). Non posso, inoltre, perdonargli di aver tenuto alcune perle per la riedizione dell'album, uscita lo scorso novembre, costringendomi ad ascoltare un gioiellino come "Broken Wheel", brano solare dove la meravigliosa timbrica della voce di Isaac si mostra in grande spolvero, solo in streaming (e separatamente dalle altre tracce). E' proprio a partire da qui, comunque, che mi sento di affermare che il buon Isaac Gracie rappresenta la mia scommessa sul futuro: finché riuscirà a rimanere sincero con se stesso, prima di tutto, avrà sempre buoni argomenti per richiamarmi al "qui e ora" del rock.

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