Non proprio tutti coloro che si interessano di prog conoscono gli It Bites, davvero, non si parla tantissimo di loro, sono probabilmente uno dei gruppi più sottovalutati dell’intero movimento. Eppure sono stati la band progressive pop per eccellenza. Può sembrare un ossimoro, perché il progressive si colloca all’opposto della semplicità di cui il pop si caratterizza e viceversa il pop rifiuta la complessità del prog, eppure le due cose si sono fuse in diverse occasioni. L’espressione è stata usata per diverse cose che coniugano arrangiamenti sofisticati e melodia accessibile, sia che si tratti dell’art pop di Peter Gabriel o Kate Bush, sia in presenza di un pop che va ben più in profondo della canzone da classifica, come ad esempio per gruppi come Tears For Fears o Talk Talk nelle loro produzioni meno commerciali; ma è stata anche utilizzata per definire, forzatamente, alcune cose neo-prog per via della maggior fruibilità rispetto al prog classico, oppure per quei gruppi a cavallo fra prog e AOR come i Saga (a mio avviso i parenti più stretti proprio degli stessi It Bites). Tuttavia nessuno può essere definito progressive pop tanto quanto gli It Bites, loro sono stati proprio il gruppo che ha fuso le due cose nella maniera più piena e assoluta; suonavano tanto brillanti e zuccherosi in stile eighties quanto tremendamente sofisticati, ricercati e tecnici negli arrangiamenti, erano la sintesi perfetta di due opposti che si attraggono. Tre album da consegnare alla storia (quella però meno conosciuta) negli anni ’80, lo scioglimento, poi la reunion negli anni 2000 con però i soli John Beck e Bob Dalton dalla formazione originale uniti alla nuova figura di John Mitchell degli Arena, due nuovi album dal sound più moderno… fino alla dichiarazione del 2019 secondo la quale la band non ha piani per il futuro, né tour né album.
Recentemente però lo storico vocalist e chitarrista Francis Dunnery, risvegliato probabilmente dalla nostalgia per quel sound e da ciò che la sua storica band sarebbe potuta diventare, ha improvvisamente deciso di riesumare in qualche modo quello spirito. Con una formazione completamente nuova e aggiungendo le proprie iniziali al marchio originale, ha prima riportato sul palco i brani di quegli storici tre album, immortalandoli in un live album e Blu-ray registrato a Wolverhampton… e poi è rientrato in studio!
Il frutto di questo lavoro è l’album “Return to Natural”, uscito all’inizio del 2024. Fondamentalmente è un disco che cerca di emulare lo spirito di quel periodo d’oro degli It Bites, in parte riuscendoci e in parte presentando qualche perdonabile pecca. Se l’obiettivo era quello di suonare datato si può dire che questo è stato centrato piuttosto bene, i suoni paiono riesumati da quel periodo, specie quando senti le tastiere; in generale la produzione è in linea con quei tempi e rifiuta totalmente la modernità, potrebbe benissimo essere uscito in quegli anni, mi verrebbe da dire che se lo fai ascoltare a qualcuno che non ne sa nulla ad orecchio te lo colloca negli anni ’80 senza grosse esitazioni. Però non ci vedo nulla di male nel suonare “vecchio”, il vintage fa sempre e comunque il suo figurone, io in generale ho sempre coltivato un certo fascino per l’anacronistico, è accattivante l’idea di non essere esattamente un prodotto dell’era moderna in un mondo che vuole sempre importi di essere “attuale”, “alla moda”, le stesse cose che penso per il vestiario le penso per la musica.
E riguardo all’anima pop? Beh, questa a dire il vero sembra venir meno; i brani non sono strutturatissimi e tentacolari (fatta eccezione per la conclusiva composizione di 9 minuti), poggiano comunque su una linearità di fondo ma non hanno quel piglio che le rende adatte a una programmazione radiofonica, le melodie non sono mai brillanti e festose. Sono melodie più raccolte, vi si respira una bella atmosfera serale e rilassata.
La prestazione strumentale è di rilievo, chi ama le cose ben suonate non avrà da obiettare, meritano attenzione le linee di basso, ben messe in evidenza ma non troppo, con un tocco leggermente jazzato. Si ha però la sensazione di una produzione un po’ molle, non ha un gran mordente, non avvolge l’ascoltatore all’istante, ho dovuto ascoltarlo un bel po’ per metabolizzarlo a fondo; rifacendoci al nome originario della band potremmo scherzosamente dire che sotto quest’aspetto… it doesn’t bite.
Ma nonostante tutto devo dire che Dunnery quell’atmosfera è riuscito a crearla dignitosamente, e se si mette in conto che non sarà ai livelli di quell’era gloriosa e che tutto è un po’ più diluito, il disco può senz’altro piacere ai fan storici.
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