Devi essere un lettore veramente bravo e attento, se ti vuoi muovere senza perderti nella grande confusione delle storie e dei racconti di Jack Vance. Il 'problema', se così lo vogliamo definire, quando hai a che fare con questo autore, è infatti che devi essere preparato ad aspettarti di tutto. Dotato di una fantasia incredibile e di una mente astuta e che definire ingegnosa, ai limiti dell'artificioso e dell'artificiale, nel senso di fuochi di capodanno, di esplosioni pirotecniche e luminarie, è poco. Jack Vance, uno che non traccia mai delle trame che sono lineari, che ti fa perdere in quelle sue costruzioni incredibili di società aliene complesse e assurde, cittadine che sono un crogiuolo di razze provenienti da ogni angolo della galassia e ogni volta tutte diverse tra loro; Jack Vance, che ti può fare letteralmente ammattire e perdere nel mezzo di un assolato deserto spaziale oppure nei vicoli criminosi di una cittadina abitata da pericolosi personaggi al limite dell'impossibile. Jack Vance che è capace di creare su due piedi, come se nulla fosse, interi mondi e galassie sconfinate e incredibili. Interi mondi costruiti in un batter di ciglia (del resto fu autore anche particolarmente prolifico) e che possono essere parodie di quello che abitiamo e dove uomini incrociano appartenenti a razze aliene teoricamente così lontane ma che invece non sai dove finiscano i primi e comincino i secondi e viceversa; pianeti dove comunque solo lui riesce o meglio riusciva a muoversi perfettamente a suo agio e persino più e meglio che i suoi stessi personaggi che invero proprio come il lettore, pagina dopo pagina, non avrebbero mai potuto sapere, non lo sanno tuttora, che cosa li aspetti. Come se ogni volta quella trama già scritta, potesse cambiare e nascondere qualche tranello inaspettato.

Eccolo qua: 'The Dirdir' (1969). Tradotto in lingua italiana e dalla pubblicazione Mondadori Urania con il titolo dal fascino classico e tardo-ottocentesco ma allo stesso tempo sempre attuale perché sempre evocativo e misterioso, 'I tesori di Tschai', è quello che si può definire come un'opera tipo dello scrittore nato a San Francisco nel lontano 1916 e scomparso quattro anni fa a Oakland, la città dove viveva oramai da molti anni: un breve romanzo di sci-fi avventurosa e dai contenuti tipicamente di intrattenimento, una finalità mai deprecabile del resto per un'opera letteraria, e che come tale può essere destinata a un pubblico di tutte le età, ma dove comunque si evincono non solo le sue capacità letterarie e quelle linguistiche, le sue grandi capacità descrittive e per quello che riguarda l'introspezione non solo dei personaggi nella loro unicità, ma pure dei comportamenti di quelle che a questo punto possiamo definire in qualche modo come le diverse 'specie' cui appartengono i personaggi che fanno parte della storia. La sua brillante ironia, una caratteristica che in qualche modo non manca mai e che più di una volta ha adoperato anche per muovere critiche alle strutture più conservatrici della società americana.

Siamo davanti al solito davanti a un'opera che se vogliamo non ha contenuti pregni di particolari significati ideologici, al contrario, o che comunque potrebbero trascendere quello che è il contenuto della trama in sé e per sé. 'The Dirdir' è un'opera apparentemente tanto facile da leggere e comprendere nei suoi contenuti per il lettore, quanto invero ritengo decisamente complicata da concepire e da scrivere per quelle che sono le sue strutture e sovrastrutture, quelli che sono i diversi strati necessari per mettere in piedi non solo una intera storia originale, ma anche quelle che sono le caratterizzazioni e gli aspetti dettagliati di ogni luogo e di tutti i personaggi, sia quelli principali che quelli secondari e che sono così tanti che alla fine, una volta terminata la lettura, oggettivamente potrebbe, può benissimo essere difficile ricordarseli tutti. O almeno, se devo essere sincero, io ho sicuramente fatto difficoltà a ricordarli tutti. Non li ricordo. Forse, chi lo sa, perché, a differenza di Jack Vance, crescendo ho perso quella capacità di sbalordirmi, di sognare a occhi aperti leggendo un libro di avventure. Quella fascinazione che poi è tipica dei racconti di fiabe, oppure dei romanzi 'fantasy', e sicuramente questo romanzo si potrebbe benissimo accostare al genere (così come si può benissimo considerare Jack Vance un autore di genere fantasy, oltre che di fantascienza), dove il lettore deve effettivamente abbandonarsi e lasciarsi trasportare dal racconto e le capacità narrative, la perizia nel descrivere i particolari di questo mondo fantastico, questa dimensione fiabesca e immaginifica e caratterizzata da quella componente che poi sarebbe il 'fantastico' in ogni sua possibile accezione.

La trama. Siamo a Carina 4269, 'una stella giallastra', attorno a cui gira un solo pianeta, Tschai, che dista duecentododici anni-luce dalla Terra. La nave stellare Explorator IV, recatasi a indagare sull'origine di misteriosi segnali radio emessi da quella zona, è stata distrutta e il suo unico sopravvissuto, Adam Reith, il protagonista della nostra storia, è stato salvato da Traz Onmale, capo della tribù degli Uomini Emblema e suo compagno di avventure insieme a Anakhe-at-afram-Anacho, un Sub Dirdir fuorilegge. Tschai è un mondo antico e che è stato teatro di guerre tra tre razze extra umane, quelle che si potrebbero definire come dominanti sulla superficie del pianeta (giacché ve ne sono invece altre, aborigeni, che vivono in comunità isolate e scavate sotto le rovine delle vecchie città): i Dirdir, i più pericolosi, i Chasch e Wankh. Ognuna delle tre grandi razze, inoltre, ha assorbito nelle proprie comunità, o fatto schiavi, individui di razza umana e che hanno finito con l'assumere le abitudine e le caratteristiche somatiche della razza ospite. I Sub Dirdir, i Sub Chasch, i Sub Wankh...

Insomma, per farla breve (ma le premesse per quello che riguarda il crogiuolo di razze che popolano il pianeta è forse uno dei passaggi più interessanti e illuminati dell'autore, pure alla luce di quelle che sarebbero le teorie scientifiche recenti e sempre più verosimili per quello che riguarda la nascita della vita sul pianeta Terra e quelle che sarebbero e sarebbero state le 'interferenze' tra il patrimonio biogenetico del nostro pianeta e quello del pianeta Marte), il contesto in cui si muove il nostro eroe, Adam Reith, non è di quelli più semplici. Sebbene tra le razze sussista una specie di armistizio, queste sono di fatto sempre ostili tra di loro e in particolare modo i Dirdir costituiscono tra tutte una vera e propria razza di cacciatori e che per propria natura possono decidere di puntare una preda senza una particolare ragione e fare della sua 'caccia' più che un obiettivo, una vera e propria ragione di vita e giacché il motivo principale della storia vedrà Adam e i suoi compagni impegnati nella ricerca di procurare al nostro eroe una astronave per permettergli di fare ritorno sulla Terra, ne conseguirà il fatto inevitabile che siano proprio questi a mettergli i bastoni tra le ruote. Soprattutto dopo quelli che saranno i fatti che si verificheranno nella cosiddetta, 'Zona Nera', una specie di porto franco e allo stesso tempo di 'Eldorado' di Tschai e considerato dai Dirdir come proprio territorio di caccia. Dove avventurieri coraggiosi si cimentano nella ricerca di pietre preziose e che sono la moneta comune a tutto il pianeta e che costituiscono l'ultima e unica possibilità residua per Adam di guadagnare quanto gli è necessario per ritornare a casa.

Inevitabile considerare in buona parte questo romanzo per quello che poi effettivamente, a dispetto delle ambientazioni tipicamente fantascientifiche, sarebbe, cioè un romanzo di fantasy e dove anche il tema, quello della caccia al tesoro, se vogliamo, si ricollega benissimo a questo tipo di immaginario. Ma tutto, dalle ambientazioni misteriose, agli intrighi di potere e i giochi di forza tra le diverse 'razze', rimanda sicuramente a quel tipo di immaginario che fu reso popolare da Tolkien e che oggi è qualche cosa di universalmente accettato e non più materia e fascinazione per pochi 'privilegiati'. E del resto, restando al romanzo in questione, è proprio la parte relativa a questa avventura nella Zona Nera la parte forte di un romanzo che per la verità perde poi qualche colpo nella seconda parte, andandosi a configurare, come spesso può succedere nei romanzi di Jack Vance, più come un capitolo di un universo più vasto e in pratica se vogliamo sconfinato, perché sconfinata era la fantasia di questo autore e che se avesse avuto tempo avrebbe appunto continuato a scrivere storie all'infinito, che come qualche cosa di 'finito' e che dia piena soddisfazione al lettore.

Eppure proprio in questo senso di 'infinitezza' possiamo forse ricercare uno dei motivi tipici di questo autore, che forse oggi non è popolare e considerato quanto altri autori diversi del genere, come Asimov, Philip K. Dick oppure Ballard, Heinlein, ma che è stato sicuramente altrettanto influente e come detto non solo per quello che è l'universo della fantascienza, aprendo se stesso e intere categorie di lettori a orizzonti diversi e sconfinati e con uno stile che qualcuno ha voluto definire comunque come 'mainstream', perché accessibile a ogni tipologia di lettore, perché non necessariamente speculativo, perché le sue storie non richiedono una particolare formazione culturale per essere apprezzate e possono essere dedicate, di conseguenza, a soggetti vari, appartenenti a diversi ceti sociali, età, sesso, ideologia politica, religione. Qualche cosa, in definitiva, che qualcuno potrebbe scambiare con superficialità, ma che invece nel suo caso definirei invece come, universalità. Una letteratura inclusiva.

Carico i commenti... con calma