C'era bisogno di scoperchiare nuovamente l'antico sepolcro? C'era davvero bisogno di profanare lo scrigno del misteri e a tal fine scardinare un sigillo durato ben quarantadue anni? Quali forze ne potranno mai scaturire?
Pongo in essere queste riflessioni prescindendo dal valore intrinseco dell'opera, che, lo dico fin da subito, è alto, altissimo.
Il ritorno sulle scene di Antonio Bartoccetti non è del resto una notizia: ormai da qualche anno (è del 2005 il mastodontico EP/DVD “Magic Ritual”) i suoi Antonius Rex son tornati a girare nel nostro stereo, con nostro estremo piacere, aggiungo io.
Ma è una vera notizia il ritorno nell'Anno Demoni 2011 dell'entità Jacula, ibernata in un sonno che pareva dovesse durare in eterno, dopo una breve ma folgorante esistenza: un'esperienza durata lo spazio di due album, i magnifici “In Cauda Semper Stat Venenum” (1969) e “Tardo Pede in Magiam Versus” (1972). Poi sarebbero nati gli Antonius Rex che, fra varie traversie ed uscite a scadenza decennale, giungono indenni ai giorni nostri.
Un titolo come “Pre Viam” (letteralmente “Prima del Cammino”), se da un lato faceva presagire un ritorno prepotente agli umori arcani e sacrali che hanno contraddistinto la prima incarnazione artistica di Antonio Bartoccetti (un'esperienza unica, terribile, enormemente avanti, assolutamente avulsa dagli anni in cui si è andata a materializzare), dall'altro segna una evidente continuità concettuale con “Per Viam”, l'ultimo lavoro degli Antonius Rex, uscito nel 2009. Fra questi due opposti sta il senso dell'opera che mi appresto a recensire: da un lato la volontà di recuperare l'antico ed inimitabile spirito che aleggiava negli album targati Jacula; dall'altro l'inevitabile continuità con il presente.
Insomma, se la rievocazione del nome Jacula non può non far tremare i polsi di coloro che ne hanno amato/venerato la musica, la copertina può di partenza generare qualche perplessità, soprattutto se si pensa al suggestivo bianco e nero di quella di “In Cauda Semper” (fra le più scioccanti che la storia del rock abbia conosciuto, se si pensa all'anno di uscita dell'album) o ai vividi toni in pastello di quella di “Tardo Pede” (che ritraeva genialmente il medesimo soggetto in versione a colori). Come la musica, anche la grafica dal 1972 ad oggi ha compiuto enormi passi in avanti, ma continuo a non digerire le orripilanti immagini digitalizzate che da diversi anni ormai corredano i lavori del Magister. E ritorno quindi, un po' intimorito, al quesito iniziale: c'era bisogno di riesumare un vecchio e suggestivo film in bianco e nero e riprenderne il plot per riproporne il sequel in 3D?
Dario Argento con la “Terza Madre” ha fallito alla grande. Antonio Bartoccetti con “Pre Viam” fortunatamente no, anche se ad un primo approccio il contenuto dell'opera sembra ricalcare le sensazioni che si hanno mirando la sua cover alquanto pacchiana: un sound moderno e patinato per una musica che non sa essere più “avanti” come lo era stata in passato, ma che viene partorita da una mente che sembra sapersi emancipare dalle decadi dei settanta e degli ottanta (cosa comprensibilissima, peraltro, anche se da un innovatore come Bartoccetti pretenderemmo un qualcosa in più, quando invece oggi il Nostro, prima ancora di portare avanti la sua ricerca, pare interessato più che altro a raffinare la sua arte, non travolgendone essenzialmente gli assunti di base).
La veste modernista, ovviamente, è imputabile al contributo (qui fondamentale) del figlio di Bartoccetti stesso, in arte Rexanthony (conosciuto per lo più negli ambienti techno-trance-danzerecci dei club di maggiore tendenza), che già aveva avuto modo di collaborare con il padre negli ultimi lavori usciti a nome Antonius Rex.
Tutto molto bello e ben fatto, beninteso, ma amo ancora ricordare l'entità Jacula indissolubilmente legata al talento di Charles Tiring (oggi passato a miglior vita), il cui organo a canne tratteggiava atmosfere irripetibili e dense di un profondo senso sacrale (era del resto un frate o qualcosa del genere); amo inoltre ricordare la chitarra anticipatrice di Bartoccetti che, seppur con grande parsimonia, si affacciava vivida tingendo di oscuro doom (era il 69!!!) le interminabili litanie di Tiring; amo ricordare infine il suggestivo recitato in latino, le liriche enigmatiche, i gorgheggi eterei di Doris Norton, l'assenza della batteria, la presenza di un medium: tutto questo rendeva inimitabile, anzi unica, l'entità Jacula, artefice di musica fuori dagli schemi, realmente sperimentale e quindi progressiva, che ambiva ad essere un'esperienza misterica prima ancora che semplicemente artistica (senza togliere il fatto che la chitarra di Bartoccetti – è vero che all'epoca abitava a Londra e che quindi poteva giovarsi di un contesto culturale pregno di stimoli – era veramente avanti, capace di anticipare persino le soffocanti/ritualistiche atmosfere che consegneranno alla storia i ben più noti padrini dell'heavy metal Black Sabbath – senza niente togliere al genio chitarristico di Tony Iommi, sia lodato in eterno).
Oggi la band, invece, si presenta in una veste rinnovata, ma sicuramente meno innovativa: la forza avanguardistica viene a stemperarsi nella riproposizione di un onesto prog/rock dalle forti tinte gotiche, dove possiamo trovare robusti assalti frontali di chitarra ritmica e batteria battente, e lunghe parentesi atmosferiche, come del resto accadeva alle origini. Solo che i suoni sono cambiati, sono moderni, sono potenti, sono nitidi, puliti, cristallini: sono perfetti per chi vuole esplorare le potenzialità di un impianto stereo con i contro-cazzi; vanno un pochino meno bene per chi, come me, aveva amato alla follia le atmosfere arcane, sfocate, oscure, intangibili di “In Cauda Semper”. E poi la voce di Bartoccetti non c'è (l'album è sostanzialmente strumentale, salvo la presenza di sensuali voci femminili), mentre i titoli/testi sono redatti in un banale inglese (ma perché poi?). Nel complesso il sound si fa più ricco,vario ed orecchiabile (a tratti ruffiano nel suo ostentato romanticismo), laddove erano il minimalismo, l'intransigenza e l'estraneità ad ogni tipo di concessione commerciale a discostare la band da tutte le altre formazioni prog dell'epoca, grandi nomi inclusi.
Per il resto, cosa recriminare ad un musicista serio, integro e professionale come Antonio Bartoccetti che, come ogni progster che si rispetti, ama coniugare un eccelso songwriting alla cura maniacale degli aspetti della produzione? Non si parla mica di black-metal, quindi abbandoniamoci a questi quarantasette minuti che sapranno senz'altro esaltare i fan dell'artista marchigiano.
L'auto-celebrativa opener “Jacula is Back” è il simbolo di quanto ci stiamo apprestando ad ascoltare: per le prima metà si muove elegantemente per il sentiero di un ambient catacombale, infestato da effettacci horror e sinistri arpeggi di chitarra acustica (l'impressione è di trovarsi, di notte, proprio nel cimitero in cui veniva profanata la tomba del monaco che dagli esordi fa da sfondo visivo alle escursioni musical-esoteriche della band); nella seconda metà invece irrompono ruvidi riffoni di chitarra distorta che trascinano il brano verso i lidi di un moderno electro/goth/metal di possente fattura in perfetto stile Antonius Rex del terzo millennio.
Insomma, sono presenti tutti gli elementi che contraddistinguono il Bartoccetti dei giorni nostri, e se dobbiamo individuare una differenza con gli ultimi lavori degli Antonius Rex, questa è da rinvenire nell'impronta determinante dell'estro del virtuoso Rexanthony (che si districa egregiamente fra pianoforte, moog, minimoog, hammond, sintetizzatori ecc., non facendo mai rimpiangere la mitica Doris Norton, a questo giro assente), ed in particolare nel suo dotto background classico (molto presente il pianoforte, bissato spesso dal pizzicato del padre, che fa un uso della chitarra acustica maggiore che in passato), a scapito della verve più prettamente “metallica”, relegata in secondo piano (fatte salve un paio di circostanze), in uno sfondo di foschi scenari ambientali, scossi sovente da sprazzi di sofisticato prog dallo squisito gusto settantiano.
Tutto decisamente sublime, un ascolto che scorre, fra pause interlocutore, lente evoluzioni e repentini cambi di scenario, sempre sull'onda della tensione, del chi va là, fino al traumatizzante finale, l'oramai nota traccia conclusiva “Possaction”, costruita attorno ad un documento vero, le grida strazianti della posseduta Sandra B. (poi suicidatosi nel 2010) registrate durante un esorcismo: un'operazione che non penso sia mai stata tentata nella storia della musica, che mette i brividi solo all'idea e che ci conferma quanto l'arte di Bartoccetti non sia solo musica, ma un'esperienza che intende avvicinarsi con prepotenza al lato oscuro dell'esistenza dell'uomo.
Ed è qui lo scarto fondamentale, il salto concettuale che rende un album di semplice e buon rock progressivo un degno capitolo della saga Jacula. Ne valeva quindi la pena riesumare l'antica salma, poiché, nonostante le rughe, Bartoccetti continua ad essere l'alfiere più coraggioso e credibile di una concezione dell'arte che si fa esperienza mistica, che diviene realmente “musica dell'occulto” in quanto veicolo per avvicinarsi al soprannaturale (invito e monito al tempo stesso, in un gioco di attrazione/repulsione, curiosità/terrore in cui cade inevitabilmente l'ascoltatore, accolto nel rituale ambiguo di un sacerdote che ben padroneggia le conoscenze e gli strumenti a propria disposizione). In questo, Bartoccetti continua ad essere il più estremo di tutti (come dire: quanto il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare), non solo inventore (possiamo dirlo, per lo meno in una dimensione strettamente rock o “commerciale) della musica esoterica, ma anche artista (solitario ed elitario) che non teme davvero nessuna sfida al fine di coronare i propri (oscuri) intenti.
Paura.
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