Nuova prova del talentuoso sassofonista J.B. Lewis, che si qui si presenta in trio con Chris Hoffman (cello & elettronica) e Max Jaffe (percussioni) salvo poi ampliare l’organico con l’aggiunta del cornettista Kirk Knukkle in un paio di pezzi. Il risultato è un gruppo di grande impatto sonoro: una musicalità ampia e pulsante, arricchita da tessiture elettroniche, sapientemente guidato dal tenorista che procede per frasi “scolpite” con grande intensità, che attraversano momenti torrenziali e brucianti per poi ritrovare una linea melodica e cantabile, senza perdere mai il filo del jazz contemporaneo.

Si comincia subito forte con la breve e spigolosa apertura quasi-funky di «Foreground» (ce ne saranno altri due di questi “stacchi” - «Middle Ground» e «Background» come a segnare tre capitoli di un unico racconto) per poi passare ad una bella versione in quartetto di «Someday We’ll Be Free», ripresa da un classico anni settanta del soul-man Donny Hathaway con la tromba di Knukkle in bella evidenza, così come nell’altro brano in quartetto («Even The Sparrow») in una stuzzicante interazione con il tenore, sullo sfondo quasi salmodiante del cello e un grande sostegno delle percussioni.

Nell’economia dell’album e nel lessico del leader non mancano i rimandi ai grandi del free-jazz classico: così Ornette Coleman («The Blues Still Blossoms»); John Coltrane - e anche Albert Ayler - per la title track; e Cecil Taylor per una rivisitazione della sua «Womb Water».

La mia preferenza va però al pezzo finale («Fear Not») in una formazione extra-large dove – su un tema circolare - il trio post-punk dei Messthetics (Joe Lally al basso; Brendan Canty, batteria e Anthony Pirog, chitarra) si affianca a quello base del leader, in un incontro-scontro per sfociare in una riuscita “fusione” delle due estetiche.

La parte grafica dell’album non è particolarmente interessante (anzi, un po’ disturbante nell’immagine di copertina) epperò completa delle necessarie indicazioni tecniche (album registrato nel 2021 e pubblicato solo due anni dopo) e dei musicisti, corredata da una breve poesia del nostro JBL (che include foneticamente i titoli dei brani) e da un’introduzione firmata da Thurston Moore (se non sbaglio, ex-chitarrista dei Sonic Youth).

Chi aveva apprezzato il precedente album “Jesup Wagon” troverà qui una bella conferma; per tutti gli altri un disco importante e consigliato.

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