Jan Potocki fu un principe polacco d'antica nobiltà. Nel corso della propria esistenza compì una serie impressionante di viaggi, dai salotti intellettuali di mezza Europa al Marocco alla Mongolia, e conseguì conoscenze, soprattutto di carattere matematico, linguistico, etnografico e religioso, così ampie da meritargli fama continentale. Caratterizzato da una sensibilità in cui si fondevano tumultuosamente l'approccio illuministico e una sotterranea tensione romantica, afflitto infine dalla nevrastenia, pose fine alla sua vita nel 1815, dopo aver personalmente levigato il pomo di una teiera fino a farlo diventare una pallottola. Oltre che sulla lingua segreta dei principi circassi, sulla Crimea e sugli usi di numerosi popoli, cosa che lo rende una delle figure più interessanti degli albori dell'antropologia, scrisse i sei volumi di “Recherches sur la Sarmatie”, una “Histoire primitive des Peuples de la Russie” e si occupò di una specie di piccolo “decamerone” (il termine lo usò lui direttamente): appunto questo “Manoscritto”, uno dei testi più inquietanti che possiate avere fra le mani.

Fermo restando che l'edizione in oggetto è incompleta (il prima possibile procederò all'acquisto e alla relativa analisi di quella completa, ma trovavo urgente segnalare un gioiello come questo), che cosa è esattamente il “Manoscritto”? Se sulle prime lo giudicheremmo un Bildungsroman come “Le avventure di Telemaco” di Fénélon o il “Meister” di Goethe, da un lato l'orrido in cui il protagonista Alphonse van Worden precipita lo pone sulla falsariga che conduce a Poe, Schwob e altri autori ascrivibili al genere, dall'altro il meccanismo del racconto nel racconto, a scatole cinesi, mutuato in parte dalle “Mille e una notte”, lo inserisce nel solco della tradizione novellistica più alta e meno d'occasione - se vogliamo essere più specifici, di quella mistico-allegorica, che parte dall'abissale Apuleio e dopo oltre mille anni viene raccolta dal titanico Boccaccio (in particolare la storia di Amore e Psiche) per poi riaffiorare proprio in questi testi d'impronta picaresca capaci di suggerire un imponderabile “al di là” rispetto alla vicenda in sé. Marc Fumaroli giunse ad affermare che “se, precorrendo i marescialli di Napoleone e lo 'spagnolismo romantico', Potocki ambienta il suo romanzo in Spagna, è perché ha scritto di fatto un secondo 'Don Chisciotte', nel quale l'enciclopedismo dei Lumi e la mitologia illuminata del 'Flauto magico' sostituiscono i romanzi cavallereschi”.

Tale risvolto misterico costituisce un ulteriore elemento d'interesse della storia. Il grande Roger Caillois, nell'introduzione, lo indica giustamente come ulteriore fattore di inquietudine che traspare da queste pagine (suddivise in giornate) e le contraddistingue: si esplica anche nella ripetizione, quasi ossessiva, della stessa storia attraverso situazioni e contesti diversi, come se i personaggi, narratore compreso, si trovassero in un labirinto di specchi. Non solo: avviene l'impensabile e si ripete ciò che si crederebbe irripetibile. Come se l'intero universo qui evocato, fatto di incontri inspiegabili e non di rado misteriosi fra una miriade di avventure, non fosse che la proiezione artistica di un grande interrogativo iniziale: che cos'è la virtù? L'intera ragnatela di personaggi, fra i quali si trovano pirati, vagabondi, zingari, nobili, marinai, servette, duchi e duchesse, eremiti e cabalisti, ma anche fantasmi, vampiri, succubi, demoni, attraverso evidenti richiami alla tradizione ermetica si sviluppa tutto attorno a questa esile ma potente suggestione filosofica - una fra quelle primordiali, per l'uomo.

La ricerca è però priva di una bussola. Per certi versi, siamo di fronte a una grande tessitura polifonica. Caillois stesso, che selezionò per questa edizione solo una parte del materiale disponibile, pubblicato in seguito, si chiede se quanti ritenevano Potocki un nemico di Chateaubriand avessero torto o ragione, se Potocki fosse realmente un seguace dell'illuminismo e del relativismo - in vita simpatizzò per i primi rivoluzionari di Francia, nel 1789 - o se i ripetuti richiami alla potenza della croce, alla lotta senza quartiere fra Dio e Satana presenti nel “Manoscritto” venissero dalla sua personale weltanschauung. Certo la circolarità allucinatoria della vicenda non fa che accrescere il disorientamento generale e la sensazione straniante che si respira: tutti gli elementi meno realistici allo sfumarsi in una sezione riemergono in un'altra.

Lo stile di scrittura, incalzante, tocca vertici difficilmente superabili di rapidità e toglie all'opera qualsiasi parvenza di artificiosità o pedanteria, anche se Potocki vi riversa una (microscopica) parte delle proprie conoscenze.

Pubblicato una prima volta nel 1813, il testo è, almeno superficialmente, collocabile nel filone fantastico-avventuroso. Come per un sottile paradosso, è però fra quelli che con più forza pongono l'accento sul dolore e sul traviamento che lo scacco di fronte al principio di realtà causano nell'essere umano. Secondo l'autore, possiamo fronteggiare il vasto e minaccioso mondo delle apparenze solo trovando la chiave - filosofia, religione - per coglierne la sostanza, come per uscire da quel labirinto di cui si è detto. Ed è questo scacco a generare in letteratura la figura del malinconico, tra le più feconde e significative, da Don Chisciotte a Madame Bovary.

 

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