L’equazione che regge questo disco è la seguente:

JCM = ½ Colosseum

In altre parole è qui in azione la sezione ritmica del suddetto anziano gruppo, con la sola aggiunta del loro chitarrista storico, quindi facendo a meno di sassofonista (scomparso da tempo), tastierista e cantante solista. L’acronimo del moniker è generato, con un pizzico di fantasia, dalle iniziali dei loro nomi: John (Hiseman), Clem (Clempson), Mark (Clarke).

Ogni discofilo che sia al contempo anche musicista rock, me compreso (anche se dilettante), ha una serie di propri idoli intoccabili fra la moltitudine di strumentisti che popola l’enorme lascito che questo genere ha consegnato alla storia. Persone queste di massimo riferimento e ammirazione, trattate con la più profonda ed eterna riconoscenza. Ebbene, uno degli dei del mio personale Olimpo è per certo Jon Hiseman, portentosa macchina del ritmo londinese, purtroppo tristemente passata a miglior vita oramai da quattro anni suonati, proprio all’indomani di questa uscita discografica.

La competenza di questo trio è assoluta… vecchi marpioni sfornati dalla scuola british blues degli anni sessanta, fattisi le ossa con gli originali maestri del genere e passati attraverso mille esperienze e peripezie. Il progetto alla base di questo pugno di covers (e di auto-covers!), spoilerata già dal suo stesso titolo, è costituito dalla volontà di Hiseman di omaggiare una serie di brillanti ex-colleghi, a quell’epoca tutti più o meno recentemente scomparsi. Ci pensa lo stesso leader dei Colosseum (ops…JCM) a vergare nelle note di copertina le rispettive dediche.

The Kettle”, che inaugura l’album, fu destinata a suo tempo ad aprire anche la più nota opera dei Colosseum: “Valentyne Suite” del 1969. Un pezzo composto prevalentemente dal loro sassofonista Dick Heckstall Smith e perciò a lui dedicato. La versione dei JCM è assai più quadrata e rocciosa di quella un tantino psichedelica e disordinata di mezzo secolo prima. Soprattutto è cantata meglio, dal bassista Clarke che qui canta quasi tutto, e in aggiunta vi è una deliziosa chitarra col wha wha, molto ma molto claptoniana.

Strangeher” stava invece sul primo lavoro dei Tempest (1972) e funziona come tributo ad Allan Holdsworth, formidabile chitarrista del gruppo in quell’occasione. Hiseman e Clarke erano già presenti anche allora e quindi trattasi nuovamente di auto-cover. L’eccellente Clem Clempson si spinge addirittura a percorrere con la chitarra solista, nota per nota, qualche misura dell’inarrivabile solo di Holdsworth, riuscendo solo a sfiorare la cosmica fluidità e destrezza del virtuosissimo, compianto Allan: uno squisito shuffle rock+jazz+blues, con un riff come non se ne vedono quasi più, assoli a cascata che spaccano (quello originario di Holdsworth però è veramente fuori scala, una cosa inarrivabile, da Arca della Gloria e pure con quell’aria di essere stato suonato così, al volo, buona la prima!).

Una cover vera e propria che si incontra infine è “Weird of Hermiston”, tributo al suo compositore Jack Bruce (sta su “Songs for a Taylor”, suo primo disco solista del 1969) e lo si sente dalla melodia insolita e ariosa del ritornello, molto nel suo stile. Hiseman e Bruce suonavano insieme nei gruppi di british blues degli anni sessanta (Graham Bond Organization) e già Hiseman, dallo stesso disco di Bruce, aveva prelevato la splendida “Theme for an Imaginary Western” per farla entrare nel repertorio dei Colosseum. Anche Clempson ebbe un’esperienza col seminale, compianto bassista verso la fine degli anni settanta, nella Jack Bruce Band ed infatti lo scozzese dei Cream è doppiamente “eroe” in scaletta perché più in là viene riesumato un altro suo rock blues, quella “Grease the Wheels” che chiudeva un suo album del 1989 intitolato “A Question of Time”.

Four Day Creep” è un blues lento e strascicato che viene dal repertorio degli Humble Pie, altra colonna del rock blues britannico a cavallo fra anni sessanta e settanta. Sicuramente una proposta di Clarke, il quale aveva fatto parte di quella formazione per un certo tempo. Questo bravo bassista e discreto cantante ha perseguito indefessamente la buona musica e provato ad averne riscontri importanti, senza però riuscire a scostarsi da fama e riconoscimento di nicchia, quasi da addetti ai lavori. Oltre che con Colosseum, Tempest ed Humble Pie, ha suonato infatti con Uriah Heep, Billy Squier, Monkees, Ian Hunter, Rainbow, Michael Bolton, Mountain… Il brano è comunque dominato dal chitarrone di Clempson, che inoltre dà una mano a Clarke a cantarla.

Yeah Yeah Yeah” è auto cover di nuovo dal repertorio dei Tempest, ma stavolta dal secondo ed ultimo loro album nel quale il chitarrista non era più Holdsworth bensì il povero Ollie Halsall, un altro marrano dallo stile esecutivo e creativo del tutto impareggiabile, una roba da non credersi. Peccato che il brano scelto per celebrarlo non sia fra i suoi più pregnanti… un rock blues che tenta di essere “commerciale” e che soprattutto non contempla assoli di chitarra, un’eresia con la presenza di uno come Halsall. Se avessero scelto dallo stesso medesimo disco “Dance To My Tune” ne avrei personalmente tratto ben altro piacere, visto che l’interminabile assolo di Halsall in esso contenuto è semplicemente, a mio gusto, il più bell’assolo che conosca (e ne avrò sentiti ventimila)!

Per consolarmi Hiseman inserisce qualcos’altro di pregevole ancora dei Tempest, sempre a celebrazione del mitico Holdsworth e cioè “Foyers of Fun”, dotato di riff jazz-blues intrigante tutto in controtempo, con vaga reminiscenza di “Sunshine of Your Love” dei Cream.

Un altro eroe di Hiseman (ed anche mio) celebrato in quest’opera è Gary Moore, del quale viene coverizzata “Rivers” risalente al repertorio dei Colosseum II, una rifondazione del gruppo ad anni settanta inoltrati, con nuovi compagni d’avventura fra i quali l’allora giovanissimo Moore. Di quello stesso gruppo viene riproposto anche lo strumentale “The Inquisition”, un episodio fusion assai brillante e riuscito, ancorché generico.

Only Sixteen” è di, e dedicata a, Graham Bond il vecchio maestro: un blues ortodosso ma vigoroso e col migliore assolo di Clap…ehm, Clempson, mentre in chiusura viene dato tributo a Larry Coryell, morto da poco e pure lui della cricca che aveva cominciato a muoversi a metà anni sessanta in giro per Londra (darei un braccio per essere catapultato nel tempo in quegli anni e aggirarmi ogni notte per il quartiere di Soho e beccare tutti i concerti di questi qui del gruppone rock blues, e poi dei Pink Floyd ecc. Viene coverizzata la sua “The Real Great Escape”.

È un disco per amatori… per goderselo pienamente bisogna avere nella propria discoteca tutti le cose dei Cream, dei Led Zeppelin, dei Free e via dicendo, e considerarle come reliquie da proteggere e rispolverare periodicamente. Malinconicamente ironico inoltre il destino che ha voluto che, a questo tributo di Hiseman a vecchi compagni di percorso che non c’erano più, sia seguita subito dopo la sua stessa morte.

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