Nata come strumento di accompagnamento, defilato rispetto agli strumenti di consolidata espressività solistica quali archi, ottoni e pianoforte, la chitarra elettrica non ci ha messo molto a metterli in fila e distanziarli tutti anche se per farlo ha avuto bisogno di un partner: l'amplificatore.
E' un pozzo senza fondo la gamma di sfumature di attacco, di timbro, di portamento ottenibile da una o più corde pizzicate e "lavorate" a dovere da dita mani cervello cuore pancia e coglioni dell'esecutore, ispirati e stimolati da ciò che "ritorna" dagli altoparlanti dell'ampli, dopo che è passato attraverso quella benedizione di dio rappresentata dalle valvole, concepite per dare mera potenza al suono ed invece rivelatesi così magicamente in grado di arricchirlo mentre lo distorcono.
Il grosso dell'innovazione è stata portata avanti manco a dirlo negli anni sessanta e Jeff Beck c'era, sui palchi con gli Yardbirds a far scoppiare valvole e sfondare altoparlanti alla ricerca di qualcosa di nuovo, di distante dai "dlin dlon" del pop e del jazz, che fosse potente ma che si potesse controllare, che fischiasse pure come una sirena industriale ma solo quando lo si voleva. I compagni degli Yardbirds mal lo sopportavano, volevano fare i Beatles belle canzoni e tante ragazze, già si erano dovuti sciroppare i tiramenti da purista blues del suo predecessore Eric Clapton, tantomeno avevano voglia di sperimentare così se ne dovette andare pure Beck e lasciare il posto a Jimmy Page.
E' andata come è andata, Clapton e Page entrambi nel mito, Beck invece figlio di un dio minore, grande sì, un maestro, il migliore ma solo per gli addetti ai lavori o quasi. Ci sono ragioni obiettive? Beck non è grande compositore (neanche Clapton, però, neanche Santana!), Beck non canta (ma neanche Page, neanche Van Halen!). Allora?
Allora diciamo che Beck non si è saputo (voluto) vendere, c'era Rod Stewart col quale ha pure fatto due dischi (storici) a fine sessanta e Mick Jagger che lo voleva negli Stones a metà dei settanta… figurati se lui ci stava a suonare quei tre accordi sempre quelli e l'assolino ogni tanto mentre Mick gli sculettava davanti tutto il tempo…
Jeff gliel'ha data su con il grande giro e ha risolto buttandosi nel jazz rock, roba strumentale per palati fini, dischi da scuola della musica, poi negli anni ottanta s'è stufato pure di quello, qualche ospitata a nobilitare gli album solisti degli amici di cui sopra ma con cortese diniego a seguirli in tournèe, un timido tentativo di riprovarci col pop rock con un disco dell'85 ("Flash") pieno di diversi produttori e cantanti, finchè ha scoperto la techno, un veicolo ideale per lui che la chitarra elettrica l'aveva suonata tutta, veramente tutta, e mancava solo di farla esplodere in mille pezzi, frammentarla in schegge variopinte, circondarla di loop, di groove ossessivi o di improvvisi e cangianti tappeti di tastiere computerizzate, appoggiandosi sempre e comunque ad un compositore ed alchimista di suoni (Tony Hymas, Jennifer Batten portentosa chitarrista midizzatasi per accompagnarlo senza interferire nel suo regno… ).
"JEFF", questo disco il suo ultimo uscito nel 2003, è un disco techno, senza scampo, e la chitarra rock blues ma con genio di Jeff ci sguazza dentro come una papera nello stagno. E' incredibile, lui resta un chitarrista "pentatonico", svisate e slide a profusione con la sua Stratocaster con gli ampli Marshall a manetta in mezzo ad un ammasso industriale di batteria e bassi finti oppure veri ma che suonano come fossero finti, loop vocali, sintetizzatori o meglio suoni comandati da un PC, impresa difficile ma funziona! Beninteso se vi piace il genere nessun problema, se non vi piace occorre un piccolo sforzo non siamo in presenza di canzoni, è musica fatta a pezzi e poi ricomposta in un patchwork instabile, talvolta ossessionante, altre volte acquietato in una pace di lirismo e armonia assoluti, un montaggio su PC di mille sfaccettature policrome entro il quale il nostro eroe si adopera con la sua infinita gamma di espressioni.
Eh sì perché Jeff Beck suona tutto della chitarra elettrica le sue mani sbatacchiano il ponte, la leva del tremolo, la paletta, i monconi di corda tra il ponte e l'attaccacorde e quelli tra il capotasto e le meccaniche della paletta, e poi il pedale wah wah, il ditale slide che viene slittato sulle corde usando non solo la sinistra ma talvolta la destra, le manopole del volume e dei toni e il selettore dei magneti continuamente smanettati. E il bending, il vibrato, di tutti i tipi e velocità, con variazioni microtonali, quarti di tono cercati e trovati con irrisoria facilità e precisione, il tocco pazzesco coi polpastrelli (Beck ha abolito per sé l'uso del plettro da una vita). Intere melodie guizzano fuori da un'unica pizzicata e al resto ci pensa la leva del tremolo, un diavolo di pezzo di ferro in precario equilibrio con il ponte ma del quale lui percepisce ogni fottuto millimetro di posizionamento.
Uno spettacolo, per chi riesce ad intuire (grosso modo) cosa stia facendo ma anche per chi non ne ha la più pallida idea, ma orecchie buone per gustare il di lui timbro imperiale (sempre !), i guizzi palpitanti e sorprendenti, la musicalità nel calare un diavolo di fraseggio blues sessantiano in un blasfemo mondo di macchine e di artificio (intelligente). Se invece vi state rompendo le palle all'ascolto, saltate almeno alla tracce più lineari e morbide la 9. "JB's Blues", un lavoro da brivido di leva del tremolo con eco ribattuto su una successione di accordi magica di sintetizzatori, e poi la 12. "Bulgaria", un traditional molto romantico suonato da un'intera e vera orchestra sul quale Beck, tutto sugli acuti e facendo "entrare" le note con la manopola del volume, tesse come fili di seta su un drappo di velluto rosso.
Jeff Beck non fa canzoni, lui fa suonare la chitarra elettrica anzi la fa cantare, se siamo d'accordo che il canto è la forma espressiva più diretta e compiuta dei propri umori. Ad altri le grandi strutture, le grandi architetture sonore, i grandi concetti musicali, le grandi tematiche liriche, a lui al meglio assoluto la Fender Stratocaster dentro l'ampli Marshall, quell'insieme di legno acciaio plastica rame vernici così affine e vicino al suo cuore.
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