Scava un buco nell’anima e dimmi cosa vedi.

Prima il languido lamento di una slide, poi il ritmo cardiaco del basso e della batteria, infine i rintocchi leggeri di uno xilofono e il suono pulito di una chitarra. Sono passati solo trenta secondi e sorrido, perché mi sono già innamorato di questo disco di Jim White e del suo infinito titolo: “Drill A Hole In That Substrate And Tell Me What You See” (Luakabop – 2004). “Static On The Radio” è il brano che mi ha colpito subito al cuore, ma l’emozione non si ferma, perché dopo un po’ sopraggiunge la voce calda, sottile e leggermente graffiata di Jim White, creando un’atmosfera simile a quella che si percepisce nel momento immediatamente successivo al risveglio dopo un bel sogno. Un piacere che aumenta quando incomincia a duettare con Aimèe Mann sulle note del ritornello della canzone. Un piacere che non mi abbandonerà per tutto l’ascolto dell’album.

Questa piccola esperienza mi conferma qualcosa che ho sempre pensato della musica, ovvero che è un modo per conoscere sé stessi. La musica come linguaggio universale parla al cuore, ti permette di scavare un buco nell’anima e vedere cosa c’è dentro. A volte può essere doloroso, ma non in questo caso, non per me almeno. Questo disco prezioso e raffinatissimo, infatti, nonostante alcune venature amare e malinconiche, ha la capacità di darmi serenità e buon umore. Mi piace ascoltarlo in macchina, la sua musica mi schiarisce il cuore e mi fa rilasciare il piede dall’acceleratore per fare in modo che il viaggio sia più lungo e l’ascolto possa cullarmi ancora un po’, ancora un altro po’, solo un altro po’.

E non credo che il tema del viaggio sia casuale, perché Jim White è una persona che ha trascorso gran parte della sua vita tra motel e autostrade, facendo mestieri ed esperienze d’ogni tipo. È stato modello, surfista, eroinomane, integralista cattolico, taxista newyorchese, falegname, fotografo e regista. Uno, nessuno e centomila insomma. E oggi? Oggi Jim White è un raffinato cantautore, uno dei pochi artisti capaci negli ultimi anni di impressionarmi in questo modo. Fra queste mosche bianche c’è sicuramente Joe Henry, che guarda caso ha prodotto insieme a Jim White l’album. E la raffinatezza, l’eleganza degli arrangiamenti sono il vero punto di forza del disco, che riesce ad unire in modo naturale tradizione e innovazione, poiché i suoi suoni, pur affondando le radici nel folk americano, presentano contaminazioni differenti dovute ad un uso intelligente dell’elettronica, degli effetti e dei fiati. La presenza di musicisti come Bill Frisell, Ralph Carney, Mary Gauthier e della già citata Aimèe Mann rappresenta l’altro elemento di spicco di questo lavoro elegante, equilibrato e affascinante. Per me è già da adesso uno dei dischi più belli dell’anno.

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