Se di tutta la storia del rock fra cent'anni resterà soltanto un nome, sarà inevitabilmente Jimi Hendrix, diceva Pete Townshend.

Ma nel rock non c'è tempo da perdere e l'iconografia cristallizza per sempre il chitarrista di Seattle durante la sua trasfigurazione lisergica e distorta dell'inno americano(1). Nella bandiera a mezz'asta è il rosso a prendere il sopravvento su bianco e blu; in pochi istanti Woodstock piomba nell'incubo del Vietnam, sullo sfondo colonne di fumo nero sempre più alte, fino a che l'odore acre del napalm non si dissolve in una nebbia purpurea.
Alla storia del rock viene consegnato uno dei momenti catartici più emblematici e profani di sempre; all'immaginario collettivo un semidio da adorare e venerare; ai posteri invece un musicista sempre più solo e visionario, distrutto dagli eccessi, pronto a volare ancora più in alto, fino a bruciarsi le ali, nel disperato tentativo di non replicare sé stesso a chi chiedeva prove della sua divinità(2).   
Con il passare degli anni infatti non poche crepe hanno incrinato la superficie di quel cristallo, lasciando trapelare un Hendrix inedito­, timido e balbuziente, stanco della sua trasgressione sessuale, schiavo di una teatralità che forse ormai non gli appartiene più, non abbastanza forte da sopravvivere alla propria evoluzione musicale mentre il peso del successo lo sta lentamente ma inesorabilmente trascinando verso il fondo. Eppure due anni appena separano Woodstock dall'allucinata e selvaggia esibizione di Monterey. Due anni che per il rock e per lo stesso Hendrix hanno avuto il peso e l'importanza di cento.

A Monterey la sua fama non lo precede ancora. Una monetina ha deciso che sarebbe stato Townshend a salire per primo sul palco quella sera, e un certo Brian Jones, che ha fatto di tutto(3) affinché l'Experience venisse inserita nel cartellone principale del Festival, si trova lì solo ed esclusivamente per annunciarlo. Quando arriva il suo momento, negli occhi della folla sono ancora impressi i cumuli di strumentazione che gli Who hanno lasciato a terra dopo un finale pirotecnico(4), vero e proprio marchio di fabbrica ormai, atteso da pubblico e critica fors'anche più dell'esibizione stessa. Un finale questa volta ancora più violento e rabbioso, perché nella testa di Pete riecheggiano, in un mantra, le parole di sfida rivoltegli nel backstage: "if I'm going to follow you, I'm gonna pull all the stops"(5).
A luci ancora spente, un Jimi Hendrix semisconosciuto apre con una versione furiosa e supersonica di "Killing Floor"(6), blues di Howlin' Wolf, sulla quale aleggia minaccioso lo spettro di Robert Johnson e il suo essere al tempo stesso chitarra ritmica, solista e voce. L'impatto è devastante. L'impressione è che siano non due, ma quattro e forse più le mani ad accanirsi sullo stesso strumento contemporaneamente. E gli Who sono già soltanto un ricordo.

Nel momento cruciale della sua carriera, la scelta di esordire con un blues è tutt'altro che casuale, perché prim'ancora di essere il più grande chitarrista elettrico di tutti i tempi, Jimi Hendrix è innanzitutto un chitarrista blues. Blues è la musica che lo ha spinto ad imbracciare una chitarra, blues è il suo modo istintivo e sanguigno di suonarla. Blues è l'impostazione della mano, con il pollice saldamente ancorato al bordo del manico. Blues sono i vinili che ascolta e colleziona(7); blues sono gli artisti a cui si ispira, così come blues sono oltre un terzo dei nastri che incide. Blues è la sua adolescenza ai margini della società, fra miseria e solitudine, trascorsa suonando solo e soltanto blues. Ma soprattutto "Blues" è l'unico documento non live nella mastodontica e disorganizzatissima discografia postuma di Jimi Hendrix che merita di essere ascoltato. Perché "Blues" propone un viaggio alternativo nell'universo musicale del chitarrista, attraverso un percorso coerente che si insinua fra le crepe del cristallo e le ripercorre a ritroso, alla ricerca delle sue radici più profonde. Un percorso che si guarda bene dal visitare i monumenti più celebri della sua breve quanto intensa parabola, per focalizzare invece la propria attenzione sui vicoli più sporchi e malfamati. Inutile aggiungere che si tratta di un biglietto di sola andata.

Pubblicato nel 1994, "Blues" si apre e si chiude con lo stesso brano, "Hear My Train A-Comin'", prima in un insolito e riverente Hendrix acustico(8), poi in un'acidissima versione elettrica e dilatata, a sottolineare come in fondo il messaggio di Pete sia poi lo stesso di Neil Young; il re se ne è andato, ma non sarà dimenticato, neanche fra cent'anni. In mezzo nove registrazioni, dissotterrate durante i ripetuti saccheggi dei suoi archivi, e messe da parte data l'impossibilità di una collocazione commerciale su di un mercato, quello americano, da sempre insofferente verso uno dei generi più immediati e vitali della musica contemporanea.
Nove registrazioni in cui Hendrix, nel più antico dei rituali voodoo, evoca e si lascia possedere dagli spiriti dei grandi maestri del passato(9), in un disco infestato che suona a metà fra una Delta Voodoo Possession Experience e una Jimi Hendrix Blues Implosion Inevitable. Un'orgia cacofonica in cui la Stratocaster di Jimi diventa a turno la puttana di tutti, con picchi di intensità quali "Catfish Blues", in cui si avvertono le inquietanti presenze di Elmore James, Lightnin' Slim e John Lee Hooker, o "Once I Had A Woman", nella quale in filigrana si intravedono Hubert Sumlin, Lonnie Johnson, Jimmy Reed e soprattutto B.B. King.
"Blues" è un documento finalmente coerente, dall'artwork alla scelta dei brani, nel quale è racchiuso l'Hendrix più allucinato e mefistotelico, libero dalle catene dell'industria discografica e dall'ossessione della guerra del volume, capace di passare con disinvoltura da sfuriate aggressive e laceranti ad atmosfere più rarefatte e sensuali senza mai tradire il proprio retaggio blues. Undici brani in tutto, undici diamanti grezzi che Hendrix non è costretto a rifinire, e che per questo rimangono le testimonianze più attendibili del suo genio puro quanto sregolato. Poco fumo e tanto arrosto, insomma.

Nel corso degli anni, un'aura di divinità ha contribuito a nascondere le crepe sempre più profonde sulla superficie di quel cristallo, anche quando i tempi sarebbero stati maturi per un'analisi lucida ed imparziale del fenomeno Hendrix. Sebbene sia impossibile quantificare l'influenza della sua produzione sulla musica a venire o ridimensionarne la portata rivoluzionaria, si può a ragione considerare la sua come una rivoluzione prettamente formale. Hendrix si muove infatti, seppur in modo del tutto personale, entro confini ben definiti.
Fin dalla dichiarazione di guerra di Link Wray, si sono sviluppate in Stati Uniti e Inghilterra due vie parallele, due modi differenti di alzare il volume: il garage-rock capitanato da Count Five, Electric Prunes e soprattutto Sonics, e il blues-rock di Stones, Who e Yardbirds. Due vie in cui distorsione, fuzz, feedback ed effetto Larsen sono già state ampiamente usate ed abusate, e che cominciano, in alcuni sporadici episodi quali ad esempio i Litter(10), ad essere fuse insieme. Quando Hendrix arriva a Londra, i Cream hanno già istituzionalizzato l'hard-blues (o hard-rock), radicalizzando il linguaggio del blues e addestrando il pubblico a lunghe jam improvvisate e interminabili assoli. Non è d'altronde mistero che la Jimi Hendrix Experience sia stata costruita a tavolino e plasmata ad immagine e somiglianza del trio londinese, con Noel Redding arruolato al basso addirittura soltanto per via del proprio look. Proprio durante il primo incontro con i Cream, Hendrix ha modo di provare un amplificatore Marshall, all'epoca poco più che un negozietto dei sobborghi di Londra che Eric Clapton prima e Pete Townshend poi avevano contribuito a rendere celebre grazie al supporto nell'evoluzione dell'amplificazione, culminata nella realizzazione dei due modelli più famosi, rispettivamente il Bluesbreaker e lo Stack. A questo punto l'Experience comincia a sviluppare il proprio suono, ma ci vorranno un paio di mesi e qualche esibizione di Jeff Beck prima che Hendrix sia in grado di padroneggiare la combinazione Marshall, Stratocaster e fuzz box(11) senza creare quel fastidioso rumore di fondo.

Hendrix è così pronto per ridefinire il ruolo della chitarra elettrica nella musica contemporanea. Artefice di una rivoluzione che non ha precedenti, ma che pur sempre di rivoluzione formale si tratta, Hendrix non cambia le regole della chitarra elettrica, semplicemente le infrange tutte. Non esiste un musicista tanto influente nell'evoluzione del rock quanto legato alla propria tradizione, e questo album ne è la prova schiacciante.
La vera rivoluzione, non più formale ma di contenuti, Jimi Hendrix era in procinto di metterla in atto poco prima della sua morte, quando sembrava seriamente intenzionato a prog-redire il suo blues e, verosimilmente, a cambiare nuovamente ed in maniera irreversibile il corso della storia del rock.
Ma questo purtroppo non lo sapremo mai, neanche fra cent'anni.

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Note

1. ^ Jimi Hendrix, "The Star-Spangled Banner". Woodstock, 18 agosto 1969.
2. ^ cit. Paolo Galori.
3. ^ John Philips, cit. Brian Jones: "you've got to have this guy. He's tearing Europe to pieces".
4. ^ The Who, "My Generation". Monterey Pop Festival, 18 giugno 1967.
5. ^ Pete Townshend, cit. Jimi Hendrix. Monterey, 18 giugno 1967.
6. ^ Jimi Hendrix Experience, "Killing Floor". Monterey, 18 giugno 1967.
7. ^ James Rotondi, "Jimi Hendrix' Personal Record Collection". Guitar Player, aprile 1996, pp. 37-42.
8. ^ Jimi Hendrix, "Hear My Train A-Comin'". See My Music Talking, 1969.
9. ^ Copertina interna di "Blues", Jimi Hendrix. MCA, 1994.
10. ^ The Litter, "I'm A Man". Distortions, 1967.
11. ^ Schema strumentazione di Jimi Hendrix.
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