Bonamassa è un invasato, posseduto com’è da una passione musicale e specificatamente chitarristica che gli dona infinita energia. Smanetta su tutti i modelli di sei corde acustiche ed elettriche, queste ultime attaccate a tutti i tipi di amplificatori possibili. Oggi ne possiede personalmente più o meno 400 + 400, e quando esse riposano nel fodero ed essi se ne stanno quiescenti, si trovano tutti nella sua casa-museo vicino Los Angeles che si chiama Bona-seum… Un vero nerd!

Sulle elettriche monta sempre corde grosse 0,12-0,51 per avere suoni più forti, netti e risoluti, potendo contare in questo su avambracci d’acciaio… i muscoli che muovono le sue dita sono strapotenti ed atti quindi a fargli fare ciò che desidera, pur con strumenti settati in una soluzione così faticosa. Il tutto senza pregiudicare di un’oncia feeling e passione, costantemente presenti.

Bonamassa ha però un difetto capitale: si è appassionato troppo da giovane, ha studiato troppo. Cosicché la sua musica suona oltre che forte, grintosa, giusta, virtuosa, elegante e trascinante, anche calligrafica, derivativa. I suoi maestri sono costantemente tutti lì, in fila dietro di lui… ogni tanto uno di loro fa un passo avanti e suggerisce al suo fervente discepolo un suono, un fraseggio, uno spunto così peculiari che per chi la sa lunga di rock e di blues e di soul, è immediata la sensazione di piccolo “furto” musicale.

Tali maestri, è bene precisare, non sono i suoi conterranei inventori del blues e del rock elettrico bensì quei grandi, grandissimi musicisti britannici che negli anni sessanta e settanta ripresero quanto lasciato alla deriva dall’effimera stagione del rock’n’roll americano e prontamente lo fecero proprio, elaborandolo col gusto e la sensibilità melodica europei e mettendo la chitarra al centro di tutto. Mi riferisco ai vari Page, Beck, Gallagher, Blackmore, Kossoff, Clapton, Green, Richards e compagnia bella.

Di chitarristi americani che si possano sentire sotto le sue dita qualcuno ce n’è, ma sempre di quella generazione: Hendrix, Santana, Vaughan, Gibbons, Allman, Kath, West… ma Bonamassa sostanzialmente è questo: uno statunitense che, nel suo piccolo, ha fatto (e ancora sta facendo) rimbalzare di nuovo nel suo paese quanto la british invasion di fine anni sessanta ha intuito e realizzato, cambiando per sempre la storia della musica popolare e piazzando rock e chitarra elettrica all’avanguardia di qualsivoglia sviluppo musicale della storia umana, per diverse decine di anni.

In questo suo album d’esordio datato 2000 Bonamassa, all’epoca ventitreenne, mostra di essere più che pronto come chitarrista: la sua tecnica è affilata e robusta, la sua idea di rock blues estremamente muscolare e insieme passionale perfettamente resa, la sua attenzione ai suoni ed alle giuste combinazioni fra chitarra ed ampli già maniacale e sopraffina. Quel che latita parzialmente è la voce, convintissima ma non entusiasmante né come timbro né come varietà. Negli anni a venire riuscirà senz’altro a migliorarla, non raggiungendo comunque grandi vette.

Dei dodici brani la metà sono cover, fra le quali si erge nettamente quella che, giustamente, si fregia di procurare il titolo all’album. La resa del vecchio classico dei primi Jethro Tull (1969, album “Stand Up”) provvede a spogliarsi di quell’aria psichedelica e fumosa dell’originale e tramuta il tutto in un nodoso, potente, trascinante hard rock blues.

Fra le composizioni originali, “I Know Where I Belong” è un funky blues Hendrixiano, o per meglio dire alla Steve Ray Vaughan quando il compianto texano s’appoggiava ad Hendrix: “Miss You, Hate You” pare invece un qualcosa fra il southern rock ed i Mountain di Leslie West.

Colour and Shape” è più “moderna”, un gran bell’esercizio di blues intimista, con variazioni e cambi di dinamica: c’è già classe, molta classe negli sforzi compositivi di Joe; la sua Stratocaster suona da brivido e delizioso appare l’inaspettato, breve finale acustico. “Headaches and Heartbreaks” è invece un up tempo accorato, cadenzato sulla chitarra di nuovo resa Hendrixiana dall’uso intensivo dell’effetto Univibe, pregevole quanto vincolante senza scampo alle gesta del prematuramente scomparso genio di Seattle. Assolo di una bellezza struggente nell’occasione, in ogni caso.

Trouble Waiting” è un boogie molto scolastico, ripieno com’è di stop&go di stretta osservanza blues, compreso il solo che è pentatonico senza se né ma. In “Current Situation” vengono mischiati B.B. King ed Hendrix come fossero cugini di primo grado, per poi abbandonarli entusiasticamente nell’assolo, che esce stavolta dalla pentatonica per andare a fare un po’ di bimbi con i baffi.

Gran bel manico il Bonamassa, puntuto e generoso, preparato e maturo già all’esordio, d’altronde arrivato dopo lunghi anni passati da enfant prodige sui palchi sin dall’infanzia. Gli manca solo il… genio, quello che correva più o meno copioso in tutti i suoi maestri citati sopra. Ragion per cui i suoi album non sono e non saranno mai da dieci: al massimo da nove, o da sette nel caso dei meno riusciti, o da otto come questo esordio col (quasi) botto.

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