Bonamassa è un devoto; del blues, soprattutto. Dopo un primo ed un secondo album decisamente rock blues, ovvero l’esordio “A New Day Yesterday” per metà riempito di cover, seguito dall’eccellente “So It’s Like That” assemblato con tutte sue composizioni originali tranne una, eccolo qui nel terzo lavoro (anno 2003) intento a coverizzare roba per lo più anni cinquanta e sessanta. Preciso e nerd com’è, per ognuna delle nove cover presenti si premura di indicare, nelle note dell’album, il disco che la contiene e dal quale ha tratto ispirazione… Senza ritegno e senza timore.

Uffa… non so a voi ma a me il blues, quando è allo stato puro diciamo così, annoia presto. Mi piace contaminato: dal rock, dalla psichedelia, dal pop, dal folk, dalla classica, dal reggae, da quassi cosa. Da solo mi scassa al quarto pezzo consecutivo, massimo. Miei gusti… d’altronde anche il jazz mi fa lo stesso effetto. Quindi questa prima uscita decisamente “ortodossa” di Bonamassa, d’altronde con intenti chiari sin dal titolo posto a questo disco, lascia piuttosto freddo uno come me che, per dire, si è sempre ben guardato dal correre dietro a lavori di medesima filosofia come “The Cradle” di Eric Clapton oppure “Still Got The Blues” del povero Gary Moore.

Quindi la faccio corta (spero): L’opener “You Upset Me Baby” è di B.B.King ed è del 1953; “Burnin’ Hell” è di John Lee Hooker e risale al 1959: Joe ci dà dentro assatanato con la slide, appoggiato dall’armonicista John Paris pure lui indemoniato; il brano che dà pure il titolo all’album è più “fresco”, diciamo così, risalendo all’esordio sessantottino di Jeff Beck e Rod Stewart insieme nel Jeff Beck Group: otto minuti quasi di blues lento come ce ne sono centinaia, e la voce di Joe a quella di Rod Stewart le fa una pippa.

Man of Many Words” è ancor più recente: Buddy Guy la incise infatti nel 1970, mentre con “Wild About You Baby” si riprecipita al 1956 e l’omaggiato è stavolta Elmore James. Con “Long Distance Blues” siamo dalle parti di T-Bone Walker e chissà di che anno è, probabilmente dei primi anni cinquanta. Non può mancare poi Freddie King ed ecco riproposta la sua ancor recente (1974…) “Pack It Up”, poi abbiamo Albert Collins (ma a quanti chitarristi avrà insegnato pure, ‘sto cristiano…) di cui viene coverizzata l’agile “Left Overs” addirittura del 1986, quindi con all’epoca Bonamassa già di questo mondo, seppur bambinello. Verso il gran finale c’è l’omaggio al papà di tutti noi e cioè Robert Johnson: la sua “Walking Blues” resa solo con Gibson Les Paul fangosa ed armonica elettrificata (sempre Paris) è obiettivamente una figata.

Al centro di tutto questo marasma, alle tracce 5, 6 e 12, ci stanno tre composizioni originali del chitarrista statunitense. La prima “Woke Up Dreaming” è uno shuffle blues acustico frenetico, chiaro omaggio a Robert Johnson; l’altra “I Don’t Live Anywhere” è invece un soul blues appoggiato e lento (come dire: palloso), avvolto di organo Hammond e di chitarre pizzicate appena. La finale “Mumbling World” è un blues arcaico sempre alla Johnson, col suono di chitarra copiatello anzichenò da “Hats Off to Roy Harper“ dei Led Zeppelin.

Bene, questo dovevo. Tre stelle va… Bonamassa non fa mai porcherie. Solo cose un po’ inutili, ogni tanto, ma solo perché è arrivato per ultimo, fuori tempo massimo, ed è obiettivamente privo di personalità forte, troppo manomessa dalla passione maniacale per chi ha fatto prima di lui quello che a lui piace tanto. E’ come scopare tenendo a mente quanto visto fare da Siffredi… magari c’è varietà e competenza, ma si perde lo “scopo” finale, ehm.

Tutto il resto delle qualità, Bonamassa le ha, e non sono poche. Una fra le tante: le sue chitarre sempre vintage attaccate ad amplificatori più vintage ancora, suonano cosmicamente bene.

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