Delle opere di Bonamassa che posseggo, “Royal Tea” è quella che più si allontana dal suo cliché abituale di ri-esecutore e ri-arrangiatore di vecchie pagine del rock fortemente legate al blues. Intanto in questo suo quattordicesimo album non vi sono cover, assoluta rarità per lui… I pezzi sono inoltre parecchio diversificati, gli assoli di chitarra brevi e contenuti, l’emissione vocale distesa e piena, sonora, con la raucedine di gioventù del tutto sparita. Insomma, è l’album giusto per chi vuol sentire meno blues e più rock melodico ma nerboruto, meno settario e più accessibile, quasi commerciale in certi episodi.

D’altronde è il disco inglese di Joe, sottolineato con gran pompa anche in copertina. Se n’è andato a registrarlo nel 2020 agli Abbey Road di Londra, tempio assoluto della musica, assurto all’empireo dal secolo scorso e per l’eternità sostanzialmente per aver dato i natali a cospicua parte della produzione dei Beatles e dei Pink Floyd, semplicemente le due entità più universalmente stimate nella storia del rock.

Abbey Road vuol dire anche grandi orchestre (la sala dello studio A è enorme e la sua acustica celebrata da sempre anche in ambito sinfonico) e “When One Door Opens” puntualmente apre il disco con un profluvio d’archi. Trattasi di una specie di suite tripartita, con parti cantate ed orchestrali interrotte al centro da una porzione strumentale ai confini con l’heavy metal! Il tutto per una durata oltre i sette minuti e con il blues tenuto molto, ma molto in sottofondo.

Si scopre che Bonamassa, giacché era a Londra, s’è fatto aiutare nella scrittura di buona parte dell’album da due vecchie lenze di quelle parti. Il primo è il “poeta” Pete Brown, quello dei Cream per intenderci. Il secondo Bernie Mardsen, chitarrista e compositore tanto bravo quanto brutto specie ora che è vecchio. Era la vera forza degli Whitesnake inglesi… un giorno mi deciderò a recensire una perla di disco che lo vede assoluto protagonista, vale a dire “Burst the Bubble” dei Company of Snakes, anno 2002.

Velocemente il resto: “Royal Tea” la canzone è uno shuffle con qualche accordo sorprendente qua e là, ed il blues tenuto nuovamente a distanza. “Why It Takes So Long to Say Goodbye” è invece una ballata blues con variazioni… bellissima!: ricchezza tematica, classe, misura, passione, attenzione. “Lookout Man” mi dice poco, trattasi di rockblues roccioso e claustrofobico con lamenti di armonica, e la particolarità di due batteristi a pestare insieme. Stesso discorso di anonimità e scarsa capacità di restare in testa per “High Class Girl”.

A Conversation with Alice” è molto bella, chiara, gloriosa, sapida, sonora, potente. Hard rock puro, ben arrangiato. Pure “I Did’nt Think She Would Do It” non è male, molto “commerciale”, Bonamassa al suo minimo come chitarrista blues di nicchia ed al suo massimo come songwriter e frontman rock. “Beyond the Silence”, tutta sua senza aiutini, è un mid-tempo intenso, con voce animosa alla Thunder (chi? Andateveli a scoprire, o riscoprire).

Lonely Boy” è rock’n’roll veloce veloce, con sezione fiati e piano honky tonk, pari pari alla conclusiva “Don’t Hand Me Your Hangups”, della stessa razza un po’ stereotipata. “Savannah” d’altro canto è un meraviglioso country blues. Sudista da far paura… del resto celebra una città della Georgia. Mandolinate deliziose qua e là, e voglia di Greg Allman alla voce. Magari!

In “Don’t You Do Me No Favours” Bonamassa va stavolta in cerca dello stile di Paul Rodgers e di Mick Ralphs nella loro Bad Company, con un rock blues rilassato e minimalista che si enfatizza nel ritornello, molto difficile da cantare. Altro pezzo “commerciale”, con allegato assoletto Ralphsiano (note lunghe e sapienti, gran suono), imperdibile.

Quattro stelle come sempre, per l’affidabile quattr’occhi. Ed ho finito con Bonamassa… mi dispiace per i troll. Ci sarebbero altri tre album (“Different Shades of Blue”, “Blues of Desperation” e Redemption”) ma non li possiedo ancora. Informo poi che sta per uscire il suo quindicesimo lavoro “Time Clocks”. Pensateci voi.

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