Bonamassa è in formissima in questo disco. C’è ispirazione compositiva (nei pezzi suoi… la metà, più o meno), varietà tematica, bella scelta di cover e relativa intelligenza di loro reinterpretazione e riarrangiamento. E poi un feeling caldo, una produzione perfetta sanguigna ma nitida, mordente ma di classe.

Mi conquista subito la partenza dell’album, con l’arpeggio in minore sul dobro e la voce, bella tesa e convinta, sopra di esso. Mi piace subito dopo la ritmica pesante e risoluta che parte e si stoppa, riparte e si riferma, e ancora il pianoforte che arriva sulla cucitura del dobro ma poi sparisce per sempre ed allora sopraggiunge un’intera orchestra! E l’assolo slide… così si rifanno i pezzi altrui! Anche l’originale “Ball Peen Hammer” di Chris Whitley (1998) infatti era gustosa da sentire, ma la potenza, la convinzione, la drammaticità di questa… E poi il valore aggiunto: il riff di base qui viene chiuso con un accordo diverso dall’originale, ma non sempre… una volta si ed una no! Bonamassa coverizza e intanto migliora le sue cover, non sempre ma spesso, e questo è uno dei casi più eclatanti.

La stessa identica situazione capita per la seconda traccia, una rivisitazione della “One of These Days” di TenYearsAftersiana memoria (album “A Space in Time”, 1972, proprio bello fra l’altro). Joe spara le sue invocazioni in mezzo alle tonanti sincopi di ritmica, più o meno come succedeva nell’originale, ma poi pensa bene di attaccarvi un codone strumentale micidiale. Su un giro di accordi pianistici alla “Hey Jude” si fa strada un assolo di slide guitar da sogno, con un suono della madonna e un pathos favoloso: quasi tre minuti di rock sublime.

Il ricorrente omaggio a Paul Rodgers e quindi alle amene cose di Free e Bad Company, stavolta rivisita quella “Seagull” piazzata nel lavoro di esordio della cattiva Compagnia (1974): senz’infamia e senza lode, Rodgers canta troppo bene e compone troppo semplicisticamente per rendere facili sue coverizzazioni.

Fra le composizioni del nostro, “Dirt in My Pocket” suona molto sudista, con quella slide guitar strascicata e quel canto pastoso alla Allman Brothers, o meglio ancora alla Gov’t Mule. “Around the Bend” invece è quasi solo chitarra acustica e voce, un country blues recante splendide sensazioni di ricovero. Ma la più toccante è “Richmond”, che va inizialmente a rompere i coglioni alla Marshall Tucker Band (”Can’t You See”, capolavoro) ma si fa rispettare, anzi conquista col suo tocco più intimista, più squisito, deliziato anche da un suggestivo mandolino. Pure elettroacustico è il pezzo di chiusura, orientaleggiante e di tabla dotato, nonché di tutte le risonanze e i crescendo ritmici del caso. Infatti s’appella “India”.

Tra le cover un po’ meno intriganti vi è quella che dà il titolo al disco, uno slow blues in origine ovattato e sussurrato che viene qui gonfiato d’orchestra e di chitarra solista poco costruttiva. Stessi dubbi anche per “Another Kind of Love” del John Mayall annata 1967, quando andatosene da tempo Clapton aveva come chitarrista Peter Green… Che dire, quello di Mayall non è il blues che mi avvince… grande pioniere divulgatore ed organizzatore lui, ma musicalmente ben poco geniale.

Le ho passate tutte? No, c’è anche “Black Night” che non è certo quella dei Deep Purple bensì un blues di metà secolo scorso del maestro Charlie Brown. Bonamassa decide per l’occasione di imbracciare una delle sue Gibson ES-335 (quelle sempre addosso a B.B.King, Alvin Lee…) e stampare un assolo blues fusion in stile Lee Ritenour che levati! Nessun altro merito, ma per i chitarristi basta e avanza. E infine “Jelly Roll”, blues acustico a gentile concessione del compianto Cavaliere dell’Ordine del Regno Unito John Martyn.

Uno dei migliori album di Joe Bonamassa: “Richmond”, “Ball Peen Hammer” e il finale di “One of These Days” sono poesia per me: quattro stelle e mezza.

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