Bonamassa è un ossessivo compulsivo. Al suo quinto album (2006), per la quinta volta ricorre ad una delle cover in scaletta per dare ad esso un titolo. Stavolta però s’ingegna di nasconderlo, seppur parzialmente: la settima traccia del disco infatti porta il nome di “Django”, ma ha per sottotitolo “inspired from Vous et Moi” e concede correttamente i diritti d’autore ai compositori dell’originale brano, risalente al 1942 ed eseguito alla chitarra e pure al violino dal genialissimo zingaro franco-belga Django Reinhardt.

Bonamassa stravolge l’originale nenia violinistica prelevandone la fortissima e peculiare melodia, poi ci pensano la sua fantasia, la sua abilità e la sua attenzione verso il giusto suono, la giusta combinazione fra chitarra ed amplificatore, a tirarne fuori una magnificenza. Lo strumento dev’essere una Fender Stratocaster (si sente il lavoro della leva, pur parco…). Niente plettro: corde e altri pezzi di chitarra abbrancati dalle dita e “lavorati” con mirabile sensibilità e musicalità, appena sfiorati controllando al tempo l’innesco dell’ampli, che è sicuramente regolato al massimo del casino per reagire alla minima sollecitazione, nonché debitamente inturgidito da una forte eco. Siamo molto, ma molto dalle parti di Jeff Beck, sia come stile che come… bravura: Joe s’ingegna pure di far risuonare le corde libere picchiettando sul posteriore della tastiera, o della paletta; un giochetto inventato dal solito tizio (Jimi Hendrix, e chi mai) e portato da Beck al livello delle belle arti. Insomma, un brano tutto da ascoltare, e da godere.

La novità di questo lavoro è che arriva Kevin Shirley alla produzione. Detto “Caveman” perché non si schioda mai dal chiuso e dalla luce artificiale di uno studio di registrazione, quest’uomo è quanto di meglio possa offrire la professione di produttore in termini di naturalezza dei suoni e perseguimento degli stessi attraverso strumenti ed apparecchiature vintage. L’ideale per Bonamassa, “nato vecchio” da sempre come musicista, chitarrista e compositore ed infatti i due si sono riconosciuti come fratelli e da quest’album in poi tutti, dico tutti i suoi lavori avranno questo sudafricano dalle orecchie finissime come factotum al di qua del vetro della sala controllo.

Fra le cover (ben sette stavolta, su undici tracce in totale) spicca la scelta di “Tea For One” dei Led Zeppelin, stralunato blues lento con ardita falsa partenza e lungaggini varie, apparso in versione originale su “Presence” del 1976: personalmente non mi ha mai entusiasmato… diciamo il secondo peggio riuscito blues in carriera del Dirigibile (il primo essendo “Hats Off to Roy Harper”). Però Joe vi mostra tutti i suoi recenti progressi alla voce, decisamente più ferma piena potente ed estesa rispetto agli inizi. La si può finalmente ammirare del tutto su “Asking Around For You”, di sua penna: un soul blues lento stereotipatissimo ma, appunto, cantato molto bene, con tutte le “piegature” giuste.

High Water Everywhere” dell’antico Charlie Patton (roba del 1929) è ben stravolta, abbellita da un bellissimo riff ex-novo, teso e scavante. L’incontinente Bonamassa per non smentirsi lo guarnisce poi di un coretto a bocca chiusa in puro stile Cream: Jack Bruce saluta dalla nuvoletta. “So Many Roads” che segue subito fa un brutto effetto perché due blues lenti, il secondo poi lungo sette minuti, vengono a noia anche se questo secondo suona diverso, meno soul e più rock, chitarre lancinanti invece che rotonde: Joe assatanato, dalle parti di Gary Moore, a massacrare corde colle sue manone iper toniche. Nessuna traccia di Otish Rush, l’esecutore primigeneo… Bonamassa è proprio “settantiano”.

Quasi, non sempre, perché ad esempio “I Don’t Believe” è resa come l’originale, solo coi suoni bombardoni possibili ultimamente e pure l’intimista “Temp Em Up Solid”, voce chitarra acustica e dobro solamente, è rispettosa del suo autore ed esecutore il grande Ry Cooder.

L’episodio acustico strumentale ad alta energia ragtime arriva anche stavolta verso la fine e si chiama “Palm Trees Helicopters and Gasoline”: bel titolo e gran bella schitarrata. Dopo di esso per finire due ulteriori vigorose invocazioni soul blues e rock blues rispettivamente, guarnite entrambe di armonica, solide e conformiste tanto che non sto neanche a nominarle.

Il solito disco da quattro stelle del Bonamassa, bravo e intraprendente ma sempre non indispensabile. In questi tempi grami però tocca tenerselo stretto.

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