Il risveglio del mondo, il sorgere del giorno, il pullulare delle mille creature di un prato.
Piccoli infinitesimi riverberi ritmici. Schegge percussive soffiate da un leggerissimo vento. Campanellini e tamburi come pennellate sulla tela.
Un infinito sparpagliarsi di voci, una intricatissima rete di impressionismo tribale. Un ambiente sonoro miracolosamente sorgivo che fa nascere il canto d'Africa.
Ecco, son più o meno così i primi minuti di “Kulu se mama”. Col canto che, ancestrale e ipnotico, è il secondo passo nel vuoto (il primo era stato il ritmo).
Il terzo passo è invece l'irrompere della purezza Coltraniana.
Quel suono nitido e espansivo che, all'altezza di questo disco, è giunto ormai in un territorio di assoluta libertà. Sentirlo farsi strada in mezzo alla pura gioia ritmica e alla voce sciamanica di Juno Lewis è la prima apoteosi di questo ennesimo capolavoro.
Il caos quindi, una specie di accapigliarsi di spiriti guida, con l'Africa (percussioni e canto) che ne raddoppia forza e intensità. Qualcosa di bellissimo che è inutile cercare di spiegare.
Chissà, forse. tutto quel cianciare sixties di allargamento della coscienza trova qui il suo senso.
Poi una specie di scioglimento, il favoloso piano di Mc Coy Tyner, che prima era stato il collante tra impressionismo ritmico e delirio free, ora con quel ritmo è solo e dipinge chissà quali aspetti reconditi dell'essere...
Tutto è incredibilmente vibrante ed è per questo, forse, che torna quel canto che per un po' se ne era stato nascosto...
Quando risentiamo gli strumenti a fiato non è più il caos però (o, se si, appena un pochino). Ma solo la fine del viaggio.
Che pian piano sparisce la voce, spariscono gli strumenti. E rimane solo quel pullulare ritmico dell'inizio che lentamente si spegne...
Trallallà...
PS...ah, ci sarebbero i due brani del secondo lato, niente paura sono bellissimi...
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