A chi avesse prestato attenzione alle cose in apparenza insignificanti, un pieno di gasolio in un placido paesotto del Maryland avrebbe forse scoperchiato un mondo.

A Takoma Park un ragazzo di vent’anni che spende tutti i suoi soldi in polverosi 78 giri di Delta Blues espone il suo disco d’esordio al benzinaio dove da un po’ di tempo lavora, con la speranza di venderne qualche copia.

È il 1959, il ragazzo si chiama John Aloysius Fahey e il disco è una beffa misteriosa, una sorta di falso storico ricoperto da una fitta nebbia. La copertina, scarna, recita: JOHN FAHEY (da un lato) — BLIND JOE DEATH (dall’altro). Nella prima facciata il giovane chitarrista riesuma alcuni pezzi tradizionali dell’âge d'or del blues, scritti tra gli altri da W. C. Handy e Arthur Blind Blake. Nella seconda facciata è invece Blind Joe Death a suonare, anche se Blind Joe Death non mai è esistito. Con questo ingenuo nom de plume il giovane musicista firma alcuni pezzi di luciferino ed ipnotico blues per sola chitarra, degni di un Robert Johnson muto e trasognato.

Il blues del Mississippi è per il serafico John Fahey come la terra odorosa sulla quale far crescere, col solo calore delle dita sulle sei corde di una chitarra, fiori grezzi e finissimi come il ranuncolo, il papavero o la ginestra, contenta dei deserti. Con questa sua confidenza con lo strumento, Fahey intarsia ed intesse dei fragilissimi dedali sonori che paiono sorti da sé nottetempo, dalie ancora inumidite della brina del mattino. Dissodando la terra con le mani, fa riaffiorare radici dorate e obliate, come un archeologo dell’immaginario.

Lontano dalle coordinate del suo tempo, il suo immaginario si nutre di dischi sbiaditi di Skip James, di Charlie Patton, di Mississippi John Hurt, di Blind Willie Johnson; di spiritual e di ciechi bluesmen, di treni a vapore, di deserti e stamberghe abbandonate e piantagioni di cotone, di fiumi melmosi di dolori e di trasfigurazioni, di danze macabre e di fiori spinosi e gentili, di viandanti dell’alba e di versetti paolini, di villaggi dormienti ed invisibili e di cuori di vetro e di pellegrini sepolti dalla memoria e dalla terra riarsa del Sud.

È però la morte la sua vera ossessione. Ed il nocciolo della sua musica sta in quell’impalpabile arte della sublimazione e della malìa: il Requiem —che, sempre di nuovo, racconta di vite dimenticate— e il labirinto. Questo disco, The Great San Bernardino Birthday Party and Other Excursions, è più di ogni altro un labirinto sonoro, dove vorticano rimescolandosi la morte e la vita.

Ma in lui rode una perenne insoddisfazione, un bisogno di guardare altrove: è il 1966 ed è guardando altrove che J. Fahey innesta, sulle radici nodose e primitive del blues, un arbusto senza nome profumato di terre lontane; colorando di mille echi diversi la sua musica e trasecolando di fronte all’invisibile.

La morte e il deserto, e sempre quel labirinto. Come una Alhambra di sogno.

Presto però per John Fahey, il mistico delle dita, lo straniero del suo tempo, questo suo labirinto diverrà una gabbia. Cardellino, minotauro e pesce fuor d’acqua, Fahey dimenandosi cercherà altrove di placare il tramestio che gli agita il petto.

Carico i commenti... con calma