Appena finiti i titoli di coda il ricordo che prevale è quello della visione di "Into The Wild": il film di Sean Penn di due anni or sono. Le somiglianze tra i due lavori sono inesistenti, tranne forse per la qualità superiore della fotografia. Quello che li accomuna è che sono tratti da due dei libri che più ho apprezzato ultimamente. In entrambi i casi sono entrato al cinema un po’ titubante. Perché quando leggi un bel libro, quasi sempre il film è una mezza delusione, un surrogato: è raro, infatti, che una trasposizione cinematografica riesca ad andare in sintonia con la tua immaginazione.

“The Road” è stato finito di girare oltre un anno fa: quando la crisi finanziaria ha colpito gli U.S.A. In un contesto di disoccupazione crescente e di timori per milioni di famiglie tale pellicola non è stata considerata idonea. Meglio qualche insulso spara e ammazza, fantasy e commediola da 4 soldi e 2 risate; deve avere pensato qualcosa del genere Hollywood. E così, “The Road”, per mesi ha aspettato di poter diventare finalmente idoneo/congruo con la congiuntura economica e psicologica dei vari paesi.

Nebbia densa, alberi storti e claudicanti. La trasposizione in natura della vita che lascia spazio alla morte. Senza sole, senza rumori, senza movimenti di contorno in un silenzio irreale ed agghiacciante un carrello della spesa, armato di uno specchio retrovisore, viene faticosamente spinto su una strada. Una dissestata striscia di asfalto, che si inerpica per un passo di montagna, viene percorsa faticosamente da un uomo e un bambino. Padre e figlio. Un interminabile cammino periglioso che porta a sud. La salvezza: o meglio, la speranza.

Il regista John Hillcoat e la produzione potevano distruggere il romanzo: aggiustarlo e banalizzarlo creando un horror anonimo sfruttando il contesto, forse post-nucleare, nel quale vige e domina il cannibalismo. Mi viene in mente quello che è stato fatto con “Io sono leggenda”: lontanissimo parente dell'ottimo libro. Potevano concentrare la trama sulle peripezie del mini nucleo famigliare in fuga esaltandone le gesta, trasformandoli in eroi e trovando magari spunto per un finale con tanto di archi pomposi.
Rimane invece fortunatamente intatto il cuore del libro. L’amore totale di un padre per un figlio anche in una situazione disperata. Amore che si palesa in gesti dolci e tremendi: il regalo di una lattina di preziosissima Coca-Cola, l’ultima pallottola pronta per essere generosamente e ripetutamente offerta sulla testa del figlio per non farlo soffrire. Amore che si manifesta con la condanna a morte per freddo di un ladro: una lezione necessaria per farlo crescere in fretta ed abituarlo, così, all’ambiente disperato nel quale dovrà vivere senza le sue spalle come protezione. Amore nelle semplici e profonde domande e nelle altrettanto rassicuranti e dure risposte.

E’ una prova maiuscola quella offerta da Viggo Mortensen (la sua migliore a mio parere), un po’ meno quelle di Kodi Smit-McPhee e Charlize Theron. Con brevi, rapidi ed intensi flashback ci viene raccontata una storia terribile. Il film, come per “The Day After”, risulta essere angosciante. Non tanto per le rare ma forti scene di tensione presenti, ma perché racconta un mondo da incubo vicino temporalmente: un futuro possibile non frutto della fantascienza. Un futuro nel quale, di fronte ad alla mancanza di una speranza, prende inesorabilmente il sopravvento la disperazione e ritorna in auge l’istinto animalesco. Padre e figlio sono “eroi”, la cui storia merita di essere raccontata, perché rimangono umani nel loro cammino verso sud.

La fotografia è superlativa. Riesce, come detto nell’incipit, a raffigurare l’ambientazione che mi ero immaginato grazie all’assenza di colori caldi, alla contestuale presenza di una bruma asfissiante ed una natura ostile nella quale comunque viene cercato un riparo. Un bel film che spero riesca a spingere molti a leggere un libro di rara bellezza. Un capolavoro.

Ilfreddo

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