Magari sarà stato in un giorno piovoso come oggi. A Seattle John Krakauer, tra uno sbadiglio ed un stiramento sfoglia il suo giornale preferito, simpatizzante democratico, con la sua bella tazza di acqua sporca fumante mentre si strofina la barba leggermente incolta. Incappa in una vignetta tagliente raffigurante, con uno schizzo ruvido, un giocatore di football intento ad arruolarsi nell’esercito. Il taglio dato dal disegnatore è palese: vuole evidenziare il fatto che costui sia un ebete che voleva andare ad ammazzare un bel po' di arabi bastardi. Non deve aver fatto piacere, al nostro autore, questa generalizzazione da parte del suo giornale preferito. Forse ha scritto per smentire quella vignetta. Per condannare il modo in cui media ed il governo hanno utilizzato la morte di un 26enne famoso. Senza vie di mezzo strumentalizzandola in modo estremo: da eroe nazionale per i repubblicani a perfetto prototipo del coglione ignorante tutto muscoli da parte democratica.
Come in “Into The Wild” John prende una storia recente reale che ha fatto scalpore e con archeologica e meticolosa cura scava per capire motivazioni che possano spiegare il succedere degli eventi fino al tragico epilogo che ci viene subito svelato. La breve vita di Pat Tillman ha fatto discutere perché pochi altri nella sua situazione avrebbero fatto le sue scelte; quello che Krakauer vuole sottolineare è che tali azioni vennero soppesate e non furono frutto dell’ignoranza. Tramite un’analisi scrupolosa composta da estrapolati di diari, testimonianze e ricostruzioni militari/giudiziarie/sportive in un lento crescendo sempre più profondo ed intimo facciamo la conoscenza di un ragazzo passionale, talentuoso, acuto, determinato, lunatico, talvolta irascibile, spesso permaloso e solitario. Atipico. Perché pur essendo un piacente e famoso giocatore di football ebbe una sola storia d’amore nella sua vita. Rifiutò un contratto milionario pur di rimanere fedele alla sua squadra (i modesti Cardinals). Nel periodo estivo, invece di darsi alla bella vita come la maggioranza dei colleghi, era solito ritirarsi con la famiglia e si allenava per massacranti gare di resistenza: una vera sfida per un fisico massiccio come il suo. Aveva uno stile di vita morigerato senza Suv e lusso e, cosa assai più stupefacente per un professionista della NFL, portava sempre un libro con sé ed era affamato di storia e di sapere.
Ma questo lavoro non è solo la vita di Pat Tillman e la ricostruzione della sua ambigua morte. E’ una scusa per parlare di altro. Della guerra in Iraq prima di tutto: quella fortemente voluta dopo l’attacco del 2001 adducendo false minacce di arsenali chimici. Il romanzo non lesina critiche severe nei confronti dell’amministrazione Bush Jr, definita nei migliori dei casi contrastata e confusa, nei peggiori come faziosa e perfettamente consapevole. Una guerra, quella del 2003, definita come palliativo politico, dettata da interessi economici fatta in tempi sbagliati nei confronti dello Stato sbagliato con spocchioso fare da supereroi. Una guerra trasformatasi lentamente in pantano grazie alla guerriglia perenne così simile a quella in cui finirono i sovietici ad inizio anni ‘80.
L’autore ripercorre tra un salto temporale e l’altro la storia recente del Medio Oriente e la conseguente nascita del movimento talebano. Viene accusato il disinteresse crescente dell’amministrazione Clinton dopo la fine della guerra fredda: falsamente convinti di essere all’alba di un’era unilaterale, e senza avversari, sottovalutarono l’evolversi della zona mediorientale.
Gli USA dopo aver “conquistato” rapidamente Badgad sono andati incontro ad un rapido calo di consensi, acuito da un crescente fronte di dubbi in ambito interno dovuto al prolungarsi della permanenza, all’aumento delle milizie utilizzate e dei morti sul campo non correlati ad un controllo progressivo dell'area. E’ in tale ottica di crisi politica, che va contestualizzata la vicenda Tillman. In questa situazione il saper controllare e filtrare le notizie, per distogliere l’attenzione, diventa in misura ancora maggiore rispetto al passato arte meschina. Un campione di football che rinuncia ad un contratto da 12,6 milioni di dollari diluiti in 4 anni per combattere come volontario incarna per l’amministrazione in crisi il barattolo di miele per l'orso affamato. Tillman divenne suo malgrado (non volle mai essere intervistato e sfruttare il suo status di superstar dell'esercito) l’american hero; una storia da sfruttare con la quale bombardare l’opinione pubblica per distogliere l’attenzione dagli insuccessi militari e le discutibili scelte politiche. La sua morte poi venne esaltata, con tanto di medaglia al merito; l’inchiesta per le condizioni misteriose di fuoco amico, quasi insabbiata.
Tillman non è stato un eroe e non credo sia un caso che nel titolo originale manchi la parola "hero", miracolosamente comparsa nella traduzione italiana. La sua è stata una vita fortemente egoistica e che quindi lascia spazio anche a critiche. Sapeva a cosa andava incontro, non era razzista e aveva forti, fortissimi dubbi sull’efficacia e appropriatezza dell’azione militare che stava compiendo per il suo Paese; detestava i metodi gerarchici dell’esercito, molti suoi compagni d'armi li definiva tra sè e sè adolescenti smaniosi di sparare ed era conscio del dolore che avrebbe provocato, andando in guerra, a familiari e moglie. Il diario è pieno di tali intelligenti e profonde riflessioni. Ciononostante per sfida personale voleva fare questa esperienza. Per sentirsi vivo. Come in quei tuffi pazzoidi dalla scogliera nei quali era solito cimentarsi da solo: non per il plauso altrui, ma per il benessere personale.
Non dà giudizi Krakauer, anche se il taglio dell’autore si sente con forza. Resta una lettura appagante, stimolante e stratiforme che, per come viene raccontata, con riusciti cambi di ambientazione, argomenti e ritmi serrati, sembra ancora una volta particolarmente adatta per una trasposizione cinematografica di spessore.
ilfreddo
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