Cosa c’è di più puntuale di un treno ad alta velocità giapponese? La risposta è semplice: Una Poltrona per Due la Vigilia di Natale.

Chissà se John Landis aveva immaginato un successo simile per una delle sue pellicole. E se avrebbe mai pensato che uno dei suoi film potesse diventare un classico di Natale per gli abitanti del paese a forma di stivale.

Stasera il classicone andrà in onda per la venticinquesima volta. Venticinque, un numero molto pertinente, direi. Classe 1983, uscito nelle sale americane sei mesi prima del Natale e in quelle italiane appena dopo la dipartita dei Re Magi, è un pezzo della nostra infanzia (credo di poter estendere la considerazione a tanti) e della nostra vita. Capite bene che l’operazione nostalgia assume contorni esplosivi, se pensiamo che dalla fine degli anni Novanta i padroni dell’etere hanno deciso di dargli anche la più pertinente delle allocazioni temporali (e stagionali). La magia del Natale, unita alla stretta allo stomaco propria della nostalgia dei tempi andati: siete i malvagi geni dello share.

Ma diamo un senso a questa narrazione e arriviamo agli albori e ai mitici protagonisti. Inizialmente il titolo originale del film sarebbe dovuto essere “Black & White” (alquanto pericoloso) e i protagonisti sarebbero dovuti essere Gene Wilder (Frankenstein Junior) e Richard Pryor (Giocattolo a Ore), allora già celeberrimi per la loro commedia “Stir Crazy” e futuri divi per il film che avrebbero girato insieme nel 1989 “Non guardarmi: non ti sento”. Il destino volle che Pryor, prima della decisione finale, rimanesse coinvolto in un incidente, a causa del quale riportò alcune ustioni invalidanti, che ovviamente lo tolsero dalla corsa alla parte. Per il sostituto si pensò immediatamente al re della risata a singhiozzo, l’uomo di spicco del “Saturday Night Live”: Edward Regan “Eddie” Murphy. La gente era già pazza di lui per il sopracitato programma tivù, inoltre Eddie aveva appena spopolato al cinema con la mitica interpretazione del galeotto Reggie Hammond, a fianco del biondo Nick Nolte, in “48 Ore”. Non è difficile pensare che la spocchia bonaria si fosse già impossessata del giovane comico cabarettista di New York. Parlo di spocchia perché fu proprio lui a non volere Gene Wilder come partner di riprese, per evitare così di sembrare la seconda scelta a titolo di rimpiazzo di Pryor. Non furono solo queste le difficoltà durante il lungo casting. Per la parte di Mortimer Duke, fratello avido di Randolph Duke, si optò per Don Ameche ma non prima di aver fatto casino ingaggiando un ignaro omonimo, perché convinti che l’originale fosse deceduto. Con Google a disposizione non avrebbero fatto quest’errore, è sicuro.

Il mitico Coleman sarebbe potuto essere interpretato da Ronnie Barker, attore britannico non più tra noi, se lui non avesse rifiutato perché troppo pigro per allontanarsi dalla madre patria. E mi viene da dire menomale, dato che Denholm Mitchell Elliott rimane ancora oggi nella classifica dei migliori maggiordomi di sempre, dopo il mitico Geoffrey Butler di casa Banks (Willy il Principe di Bel Air).

Il percorso fu tortuoso anche per la splendida Jamie Lee Curtis, che al tempo aveva preso parte ad alcuni horror B-movies ed era considerata una regina delle urla, più che una normale attrice. La sua fortuna fu prendere parte al documentario horror “Coming Soon” con Landis, che la notò e la ritenne adatta per la parte della prostituta Ophelia.

Dan Aykroyd era stato coprotagonista illustre nella commedia musicale “The Blues Brothers” e fu preso in considerazione sempre da Landis (anche se la Paramount non era convinta) che aveva già lavorato con lui in quell’occasione. Dan aveva funzionato talmente bene al fianco di John Belushi, da risultare perfetto come co-protagonista insieme a un mattatore come Murphy.

“Trading Places” (questo è il titolo originale del film) è stato girato tra New York e Filadelfia. Nonostante il titolo italiano sia a mio avviso più adatto, quello originale riporta al filo conduttore della vicenda: la Borsa e lo scambio di ruoli.

Ho visto il film per la prima volta a otto anni e già allora non avevo capito una beata fava di tutto ciò che girava intorno al succo d’arancia surgelato e affini. Non che oggi abbia la situazione in pugno ma direi che la cosa mi è più chiara. L’intrigo che nasce dalla becera ed esigua scommessa dei fratelli Duke fa danni inenarrabili e già al tempo l’idea era quella di dimostrare che tutto girasse intorno ai soldi, dall’avidità al riscatto sociale.

L’immortale colonna sonora di Trading Places è stata composta da Elmer Bernstein, che utilizzò l’opera “Le nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart, a titolo di tema di fondo per la partitura. Le nozze di Figaro narrano di un servo che subisce un torto dal suo ricco datore di lavoro, il conte Almaviva, e si vendica svelando le macchinazioni del conte. Più adatta di così.

Adoro le immagini sui titoli di testa, nelle quali vediamo una ruspante Filadelfia dei primi anni Ottanta, con le auto del tempo, la gente che calca i marciapiedi delle periferie, per poi spostarsi in centro, dove il mitico Billie Ray Valentine recita nella recita la sua parte da senzatetto. Come non amare il capello leccato e l’espressione da ricco fighetto di Louis Winthorpe III, succube della ricca fidanzatina snob Penelope, nipote dei tirchissimi zii, i fratelli Duke.

Dopo venticinque anni, Dan Aykroyd per noi nerd è soprattutto il Ray Stantz di Ghostbusters, armato di trappola e zaino protonico. Un mito assoluto. E chi si scorda la sua faccia durante il topless di Ophelia, dopo il crollo d’immagine di Louis. E la gomma da masticare che le ruota in bocca, dietro quel sorriso da donna vissuta finta mangia uomini. E il treno che porta noi e la combriccola a New York verso la fine del film, quanto ci ha fatto e ci fa ancora ridere? Al netto della sodomia primatica all’epilogo, è proprio a questo punto che ci si affaccia alla rivalsa. I buoni, prima messi l’uno contro l’altro per una scommessa dai contorni scozzesi (non cito i genovesi per nazionalismo) vincono e i cattivi soccombono. I più attenti conoscitori di Eddie Murphy e dei suoi film sapranno dire dove incontreremo nuovamente i fratelli Duke in povertà. Un geniale cameo che non tutti conoscono o ricordano.

Insomma, in venticinque anni “Una Poltrona per Due” è stato protagonista del Natale della mia infanzia, adolescenza ed età adulta. L’ho seguito, l’ho tenuto solamente come sottofondo mentre lottavo con la carta regalo, i fiocchi e il nastro adesivo. L’ho immortalato per sempre comprando dvd e poi blu-ray. E lo farò conoscere alle mie figlie, nella speranza che i signori di Mediaset continueranno con la tradizione, senza fare scherzi.

Io sono pronto anche stavolta e guai chi mi disturberà. Non ci saremo neanche per Babbo Natale in persona.

E tanti auguri a tutti.

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