Ritengo che John Mayall sia il più importante musicista Blues bianco, e lo è fin dagli anni sessanta, quando con i suoi Bluesbreakers ha assunto il ruolo di vero e proprio pioniere del british blues revival. I Bluesbreakers appunto, non un vero e proprio gruppo, bensì un banco di prova, un laboratorio di idee e invenzioni, un gruppo di grandi musicisti uniti dalla passione per il Blues, ma anche dalla voglia di sperimentare e di andare oltre i canoni e gli standard classici. Mai stati una band stabile, i Bluesbreakers hanno visto alternarsi tra le loro fila gente del calibro di Eric Clapton, Peter Green e Mick Taylor, solo per citarne alcuni, tutti alle primissime esperienze o quasi, quindi possiamo dire che Mayall, oltre ad essere un grande musicista - compositore, cantante, chitarrista, pianista, e splendido armonicista - è stato anche un ottimo talent scout. La musica dei Bluesbreakers partiva dal passato, ma poi prendeva altre strade, dirette verso jam e improvvisazioni libere, durante le quali Mayall assurgeva a ruolo di catalizzatore e coagulatore, ma permettendo ai più virtuosi di ritagliarsi tutti gli spazi che desideravano, quindi disposto anche a defilarsi e a lasciare il campo libero agli altri; insomma era un leader, ma non una prima donna, ne tantomeno un tiranno dispotico, bensì una guida, una sorta di collante in grado di tenere insieme le diverse personalità che intorno a lui si radunavano.
Dopo diversi ottimi e seminali dischi di blues elettrico e blues-rock, nel 1968 Mayall pubblicò Bare Wires, uno dei suoi lavori più geniali e ambiziosi del periodo, ma anche fra i più difficili e complicati. Rispetto ai lavori precedenti questo è un album meno ruvido, meno rock, più levigato e soffice, ma dalla forte inclinazione sperimentale e con una spiccata componente jazz. La line up del nuovo disco è in gran parte rinnovata, vedendo come unica conferma dal precedente Crusade il chitarrista Mick Taylor. Mayall aveva intenzione di ricreare un suono più ricco e sinfonico, quindi decise di dare più spazio ai fiati, accogliendo nella band i sassofonisti Chris Mercer e Dick Heckstall-Smith, e di introdurre qualche pennellata d'archi col violinista Henry Lowther (anche al corno). A completare la band, Tony Reeves al basso e Jon Hiseman alla batteria.
Il primo brano del disco è una lunga suite, "Bare Wires Suite", che con i suoi ventitre minuti occupava l'intero lato A del vinile originale. Si tratta di una composizione complessa, strutturata in sette parti diverse (ognuna delle quali ha un suo titolo), che in se ingloba blues, jazz, accenni di musica da camera, con tanto di violino, e spruzzate di velata psichedelia. Probabilmente le parti migliori sono quelle centrali: "I Start Walking" una sorta di rhythm and blues abbastanza sostenuto, impreziosito da uno splendido assolo di Taylor, e "Open Up a New Door" un numero jazz-blues, a mo' di marcetta anni trenta, guidato dai fiati e da un Chris Mercer in grande spolvero. A fine ascolto, a dire il vero, questo ambizioso collage lascia un po' interdetti, il confluire di una parte nella successiva non è sempre facile e a volte appaiono un po' slegate fra loro; l'impressione è che forse sarebbe stato meglio svilupparne in maniera più completa alcune e tralasciarne altre. Insomma, un esperimeto coraggioso, ma a mio modo di vedere non del tutto riuscito.
Il lato B presenta invece una maggior varietà e nel complesso pare meglio allestito. Si apre col jazz-blues di "I'm a Stranger", ma forse i momenti migliori arrivano dopo. Fra i brani più salienti del disco vi è infatti il successivo "No Reply", guidato da un leggero wah wah riff di Taylor, e da sapienti fraseggi all'armonica di John, un brano semplice, molto orecchiabile, canticchiabile direi, dall'andatura rilassata e sorniona, ma allo stesso tempo accattivante e seducente. Un ottimo Mick Taylor è protagonista anche nello strumentale "Hartley Quits", un boogie con un bel groove che contribuisce ad alzare un po' il ritmo del disco. A questo scopo risulta essere molto utile anche il funk-r'n'b di "She's Too Young", che sembra quasi fare il verso a James Brown, con i sax a guidare le danze. "Killing Time" è invece uno slow blues abbastanza tipico, ma di ottima fattura. Chiude "Sandy", scandita da uno splendido accompagnamento di slide guitar e dal cantato di John che qui ricorda molto il leggendario Robert Johnson.
Nel cd rimasterizzato sono state aggiunte sei bonus track, che personalmente non mi sembra abbiano niente da invidiare ai brani storici, questo a conferma dell'ottima vena creativa di Mayall. Fra queste trovo che le più interessanti siano lo strumentale "Knocker's Step Forward" e "Hide and Seek", rock-blues-boogie, trascinato da una chitarra bella cattiva. Ma da non perdere nemmeno l'ultima traccia, "Start Walkin'", registrata live al Falmer College di Brighton, perché, sebbene l'audio non sia il massimo, vi è un Mick Taylor pazzesco.
Per concludere direi che Bare Wires è sicuramente un album di ottima qualità, anche se ritengo che i dischi più riusciti di Mayall siano altri. Pur essendo questo, infatti, un lavoro molto elegante, ricco di spunti interessanti e soluzioni originali, si presenta forse fin troppo strutturato e direi che nel complesso pecca un po' in quella freschezza e quello slancio che avevano caratterizzato i lavori precedenti. Non a caso nel disco successivo, Blues From Laurel Canyon, Mayall tornerà a una formula più semplice e ruvida, mettendo da parte fiati e ambizioni jazz. Insomma, tecnicamente ed esteticamente Bare Wires è un gran disco, ma manca forse un pochino di cuore, di passione... quel pizzico di feeling in più che lo avrebbe reso perfetto.
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