E tre. Sì, lo dico subito, a chiarire ogni possibile dubbio. E' il terzo album di seguito dell'adorata Polly che mi rende perplesso e non mi convince. Come ricorderete, anche "White Chalk", non mi aveva soddisfatto punto. Avevo invitato la nostra a ritrovare l'amicizia con Steve Albini, oppure ad affidarsi a Blixa Bargeld. A tornare alle chitarre, insomma. E, parzialmente, il ripensamento c'è stato. Si rinnova infatti la collaborazione tra lei è John Parish, che ci aveva regalato il sontuoso "Dance Hall at Louise Point". Termini immutati: Parish si occupa degli strumenti e della scrittura delle melodie, Harvey di testi e cantato (c'e anche qualche ospite qua e là).

Ma le promesse non vengono mantenute. Le stesse promesse che speravamo ci riservasse per l'intero lavoro l'opener "Black Hearted Love" e quel "Batto quattro" iniziale della batteria. A costo di essere tacciati di revisionismo, questo è infatti ciò che vogliamo: melodie sghembe, chitarre viziose e Polly che ci parla dei suoi amori finiti male. La sua voce piena di malizia e mistero che invita all'oscuro: "I'd like to take you to a place I know, my black hearted love". Lì vi è tutto, e non abbiamo bisogno di altro. "In the rain, in the evening", naturalmente, non in una fottuta giornata di sole. Perché, in questo, lei è brava come nessuna lo è, ça suffit. Ci accontenteremmo di dieci fotocopie, e sapremmo di averla nel cuore ancora un po'. Ma le cose non girano già dalla seconda canzone, intrisa di mandolino e scontate alzate di tonalità. Ed, attenzione, più che un problema di scrittura e di suoni, mi sembra proprio una questione di "già sentito". Per esempio, quante centinaia di volte vi siete imbattuti, nella Vostra vita di ascoltatori, nel valzerino, dalle reminiscenze vaudeville, di "Leaving California"? Avete voglia di sentirlo per l'ennesima? Io, mi dispiace, no.

Ciò che più mi sorprende è il mancato connubio tra i testi e le musiche. Polly Jean è, come ai bei tempi, tetra, mordace ed arrabbiata col mondo, soprattutto quello maschile. Ma Parish non la sostiene affatto. Il pezzo migliore mi pare lo stomp-blues che concede il titolo al disco, con la Harvey, che dopo un inizio recitato, esplode in un delirante: "I want his fucking ass!". Invece di invitare John Cale alla viola e provare a reinventare, ancora una volta, la musica del diavolo, il brano, dopo un paio di minuti, viene sfumato in un insulso strumentale.

Il resto, eccetto la furia di "Pig Will Not" mi tocca poco: ballate tenui intrise di memorie western. Ben inteso: chi aveva amato "White Chalk", si adagerà qua trovando il tepore giusto.

Nella mia modesta opinione, stiamo nella sufficienza, e nulla più.

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