Approfittando dello stop dell’attività concertistica che ovviamente ha colpito anche i Dream Theater il dio della chitarra John Petrucci pubblica il suo secondo lavoro solista, “Terminal Velocity”, 15 anni dopo la sua prima prova “Suspended Animation”.

Il Petrucci solista non ha esattamente lo stesso approccio che ha con la sua band, sappiamo benissimo che c’è una bella differenza fra il comporre per una band e il comporre per conto proprio. Il Petrucci solista è decisamente meno heavy e molto più focalizzato sul proprio virtuosismo, un virtuosismo molto marcato ma intelligente, che spara sì le note a mille ma lo fa coerentemente con ciò che vuole esprimere. In più si permette di spaziare anche in diversi generi e stili senza perdere di vista il proprio orientamento musicale. Tuttavia manca quel qualcosa che vada veramente fuori dallo schema e dallo stile Petrucci, si osa sì ma quel tanto che basta, un po’ più in là ci si potrebbe anche spingere.

In brani come la title-track e soprattutto “Happy Song” virtuosismo e melodia sono coniugati alla perfezione, nonostante la complessità scorrono molto bene anche nelle orecchie dei poco avvezzi a certa magnificenza, sono quasi due brani da giro in macchina in città il sabato sera. “Glassy-Eyed Zombies” e “Snake in My Boot” propongono una sorta di hard rock tecnico e tentacolare, “Temple of Circadia” è invece il brano più metal, in bilico fra riff taglienti modalità “Awake” e riverberi che creano atmosfera. La voglia di osare comunque affiora in “Gemini”, dove spuntano ritmi latini e chitarre flamenco, ma soprattutto in “Out of the Blue”, un blues pacato e notturno che da Petrucci non ti aspetti più di tanto.

Un disco composto da Petrucci praticamente da solo, il chitarrista esegue personalmente tutte le parti di chitarra e affida agli amici Dave LaRue (già presente nel primo lavoro) e Mike Portnoy il compito di eseguire le parti rispettivamente di basso e batteria lasciandole pressoché inalterate ma concedendo qualche piccola libertà di modifica. Ma è proprio su Portnoy che è doveroso soffermarsi, la sua presenza in questo disco è frutto del rapporto d’amicizia che è rimasto fra i due anche dopo la sua uscita dai Dream Theater. Sembra che a Portnoy sia stata lasciata un bel po’ di libertà di espressione, a quanto pare Petrucci, conscio delle sue abilità e del suo atteggiamento un po’ da boss, sapeva che Portnoy non si sarebbe mai limitato a fare l’esecutore obbediente e statico, sta di fatto che le rullate di batteria eccessive, frenetiche e pure un po’ prevedibili abbondano pure qui; forse non sarà un Portnoy al 100% ma all’80% direi di sì. Petrucci poi ha espresso parole di elogio nei confronti del batterista, definendolo come cresciuto e abile nel destreggiarsi fra diversi stili e generi. Qualcuno ha sperato che questa reunion fra i due fosse solo il primo passo per un futuro ritorno di Portnoy nei Dream Theater ma la cosa non sembra assolutamente nelle intenzioni della band, che vede in Mike Mangini il batterista definitivo ormai pienamente integrato nel gruppo. Questo ritrovato sodalizio Petrucci-Portnoy è tuttavia l’anticamera per la reunion dei Liquid Tension Experiment - dove Portnoy ritrova anche l’altro ex compagno Jordan Rudess - che hanno appena pubblicato il loro terzo album dopo 22 anni (più avanti lo recensirò).

Ora la curiosità si sposta su cosa faranno i Dream Theater nell’ormai completo nuovo album, anch’esso frutto dello stop ai concerti e non previsto in tempi così brevi, intanto John Petrucci si riconferma divino, sempre che fosse necessario dimostrarlo ancora una volta.

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