John Renbourn è tra i maggiori protagonisti della stagione del british folk che coinvolse nella seconda metà degli anni ’60 la Gran Bretagna.

Dall’estremo nord della Scozia fino a sud, nei fumosi pub londinesi di Soho, in molti attinsero al folk e al blues acustico d’oltreoceano, ibridandolo alla tradizione più squisitamente britannica e celtica. John Martyn, Donovan, Davy Graham, Bert Jansch sono alcuni dei nomi che resero quella stagione indimenticabile. Proprio con Bert Jansch, Renbourn farà coppia fissa e fonderà poi i Pentangle, gruppo memorabile e che insieme ai Fairport Convention e agli Incredibile String Band, saranno invece tra le band più prolifiche del british folk.

Comunque tornando al nostro John, unanimemente riconosciuto tra i più bravi e apprezzati esponenti dell’arte del fingerpicking, un maestro della sei corde acustica in generale, dopo una passione adolescenziale per lo skiffle (genere di origine statunitense molto in voga nell’Inghilterra degli anni ’50 e che fondeva blues a sonorità bluegrass e jazzy) si appassionò al blues dei vari Leadbelly e Robert Johnson. Lasciata la scuola si trasferì poco più che ventenne a Londra, dove visse in un barcone lungo il Tamigi la foto in copertina lo ritrae proprio lì) e dove poté farsi le ossa e affinare la sua tecnica nei numerosi locali della capitale.
Chitarrista virtuoso, dalla classe purissima e cristallina nonchè dal tocco raffinato e colto, frutto anche dei suoi studi di chitarra classica, incise questo disco nel 1965, includendo pezzi scritti da lui a classici della tradizione britannica, come erano soliti fare molti dei musicisti folk del periodo (“Winter Is Gone” , “Beth’ s Blues” o ”Candy Man” ne sono un esempio).

“John Renbourn”, disco omonimo, è il primo della sua produzione discografica solista e da subito lascia intravedere i suoi tratti distintivi. La chitarra di Renbourn è la protagonista insieme alla sua voce calda e profonda e alla sua passione per le sonorità medievali. Melodie e arpeggi accattivanti già dal primo ascolto, corde pizzicate in maniera mirabile e natura eclettica e versatile dimostrata nella capacità di svariare dal folk puro di “Song” e “Playsong” o “Down On The Barge”, al blues alcolico e malinconico di “Blue Bones” e “Blues Run The Game”, al jazz di “Noah and the Rabbit”.

Un’esordio tutt’altro che in sordina per un’icona del folk inglese, uno dei chitarristi più stimati e longevi del panorama musicale britannico in generale; disco che mi sento di consigliare vivamente a tutti gli appassionati del genere (soprattutto ai neofiti…).

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