13 aprile 1612: i samurai Miyamoto Musashi e Sasaki Kojiro si scontrano a duello sulla spiaggia di Funajima, isolotto giapponese sito al largo del porto di Shimonoseki, a metà di quello stretto braccio di mare che sta fra le isole maggiori di Honshu e Kyushu. E' Musashi a colpire a morte il suo avversario, sorprendendolo in un fatale attimo di distrazione e confermando la sua temibile fama d'insuperabile guerriero, nonché quella di maggiore spadaccino che il Paese del Sol Levante avesse mai conosciuto. Da quel giorno, l'isola è nota anche col nome di Ganryujima a perenne ricordo dell'eroe sconfitto, il cui nomignolo era, per l'appunto, "Ganryu". L'evento è depositario di un significato simbolico elevatissimo, ed appartiene alla memoria collettiva del popolo giapponese, che gli assegna il valore di un epico scontro fra opposti, tale a quello che per gli Occidentali ha il mitico duello fra Ettore e Achille; circondato da un parziale e suggestivo alone di mistero che non lascia tuttavia dubbi sull'accertata veridicità storica di quanto tramandato, il combattimento fra Musashi e Kojiro si inserisce di diritto nel novero degli accadimenti epocali nella storia del Giappone moderno, e come tale è stato più volte immortalato, nei secoli, in pregevoli testimonianze d'arte visuale nipponica.

23 novembre 1984: prendendo idealmente spunto da quell'epico combattimento, e rielaborandolo in forme musicali, due musicisti (un americano e un giapponese) si ritrovano ai Radio City Studios di New York e, nell'arco di un'unica ed ispirata sessione, registrano un mirabile manifesto di cooperazione inter-culturale, luminosa (e sconcertante) espressione di una poetica della sintesi fra Oriente e Occidente, di per sé inqualificabile ed insofferente delle più canoniche geografie musicali. Un capitolo di storia a sé, senza un "prima" né un "dopo", di fatto somigliante solo a sé stesso, prodotto dell'irripetibile e nondimeno spontanea, naturale sintonia di due intelletti "eccelsi", pur se molto diversi nella loro eccellenza: l'uno giovane fautore di un'inclassificabile "free-form" avanguardistica solo in parte riconducibile al Jazz e ai suoi criteri improvvisativi, l'altro confinato (ma solo apparentemente) nell'immutabile continuità di una tradizione plurisecolare e, per sua stessa natura, nemica dichiarata dell'eterodossia, dell'"eccezione alla regola"; una tradizione impegnata a ripetere sé stessa nell'ideale ciclicità di schemi fissi, collaudati stilemi sullo sfondo di un preciso "orizzonte d'attesa" che tutti, più o meno consapevolmente, si attendono venga confermato e rispettato; tutte le culture trazional-popolari, non solo la giapponese che qui ci interessa più da vicino, si muovono su itinerari analoghi, riservando ben poco spazio alla soggettività interpretativa del singolo esecutore, viceversa metodico e rigoroso interprete di cristallizzati canovacci stilistici.

I due musicisti in questione, l'avrete già intuito anche gettando un'occhiata ai titolari dell'opera in questione, sono John Zorn e Sato Michihiro, ma in un simile contesto definirli semplici "musicisti" (nel senso di "suonatori di strumenti") risulterà forse riduttivo: più d'ogni altra cosa, essi sono gli illustri portavoce di due punti di vista corrispondenti ad altrettante visioni di una "materia" musicale di per sé neutra, unica, universale; lo stesso John Zorn, non a caso, ama sottolineare (mutuando determinati concetti dalla teoria linguistica di Noam Chomsky) come le distinzioni fra generi e relative categorie non siano altro che attributi accessori di quella che è la "struttura superficiale" ("surface structure") della musica, mentre tutte le musiche, indipendentemente dalla loro collocazione stilistica e storico-geografica, mantengono punti di reciproco contatto in quanto a "struttura profonda" ("deep structure"); secondo Zorn, solo il musicista capace di cogliere i nessi a livello di struttura profonda è in grado di esprimere un discorso musicale coerentemente "avanguardistico", nel senso più letterale del termine. Ne consegue che osservare le forme della musica da una simile prospettiva significa soprattutto saper abbracciare più esperienze dall'alto di un invidiabile approccio "totalizzante", privo di confini o limitazioni di sorta, lontano da un'impostazione rigorosamente (e tradizionalmente) "puristica".

In "Ganryu Island", quindi, gli interessanti spunti suggeriti dalla tradizione giapponese vengono attualizzati, dinamicizzati, sottratti alla loro staticità dall'inusitata fusione con elementi d'avanguardia contemporanea; ma affinché fosse possibile concretare un progetto sino allora valido solo sulla carta, era recessario recuperare molte delle peculiarità timbriche che, anche inconsciamente, l'ascoltatore occidentale è portato ad associare a quella tradizione: in tale ottica si inquadra il decisivo contributo di una personalità sì di frontiera, ma pur sempre ben radicata nella scena musicale del proprio Paese d'origine, come Sato Michihiro, maestro ed impeccabile suonatore di "shamisen". Con questo termine, forse enigmatico per molti, si indica uno strumento giapponese a tre corde dal manico molto allungato, con cassa di forma rotondeggiante spesso ricoperta di pelle di serpente; simbolo della cultura musicale giapponese, esso è in realtà nipponico solo per adozione, dal momento che si ritiene sia originario dell'Asia Centrale, e comunque fu importato dalla Cina (questo è storicamente provato) solo fra XV e XVI secolo. Largamente impiegato nell'ambito del teatro "kabuki", l'apprendimento della sua tecnica esecutiva costituiva materia di studio per le aspiranti "geishe", che se ne servivano a scopo di intrattenimento. La particolarità di questo strumento sta nel fatto che in esso siano compresenti (direi anzi complementari) un'anima "melodica" ed una più propriamente "percussiva": si pùò suonare pizzicandone le corde come si farebbe con un contrabbasso, ma anche facendo cozzare il plettro (che i Giapponesi chiamano "bachi") contro la cassa di risonanza.

Significativo è il fatto che Michihiro, tra i massimi interpreti contemporanei dello "shamisen", stesse in quel periodo sperimentando una nuova tecnica esecutiva in cui largo spazio avevano stilemi ("patterns" in gergo tecnico) di matrice Jazzistica, mutuati dalle tecniche improvvisative di certa cultura musicale afro-americana: non è raro, nell'album in questione, ascoltare lo "shamisen" impegnato a districarsi fra passaggi armonici tipici del Blues e del Jazz modale, nel contesto di un'improvvisazione profondamente "umorale" in cui ben poco è preliminarmente pianificato. Spicca, all'ascolto, la varietà timbrica di un John Zorn comunque interessato ad esplorare soprattutto i registri acuti di sax e clarinetto, con particolare predilezione per dissonanze e sonorità difficili, spigolose, bizzarre, capaci di insinuarsi a mo' di sordo e prolungato lamento tra i fraseggi di Michihiro. L'atmosfera generale è però lungi dal risultare freddamente accademica, dal momento che ovunque si respira la leggerezza, la velata auto-ironia di un duetto confidenziale, del tutto informale; in questo approccio auto-ironico ed anti-intellettualista si inseriscono i curiosi suoni-versi inseriti qua e là da Zorn: miagolii, cinguettii, gorgheggi, esilaranti mugugni di "zappiana" memoria. E particolare rilievo merita, in questo singolare capitolo di disscrante poetica della creatività, il ruolo attribuito ai silenzi, alle pause, alle sospensioni, ai "tempi morti" che sono parte costitutiva della narrazione.

E' un album difficile, ostico, assolutamente bisognoso della pazienza dell'ascoltatore. Sconsigliato agli appassionati di Rock o anche del Jazz più classico, avrebbero difficoltà a terminare l'ascolto finanche del primo pezzo in scaletta. Comunque, esperimento di grande ambizione e coraggio, cui assegno quattro stelle senza riserve.

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