Per il suo ultimo album di inediti del secolo scorso, uscito nel 1998, Joni replica la stessa struttura di copertina di quello precedente. Ma stavolta viene ricercata, per l’autoritratto, un’espressione più distesa, e la parete a cui è “appesa” l’opera non è più di un “Turbinoso Indaco”, bensì di un rilassante gialloverde.
In onore al titolo “Addomesticando la tigre” le pennellate su tela della Joni delineano un’abbastanza solare situazione da gattara che scivola verso l’anzianotto, ma con fascino. La signora ci tiene a farci sapere insomma che i casini col marito/produttore/bassista, ora ex marito ed ex produttore ma ancora bassista, si sono allontanati nel tempo e sfumati nell’umore. La terza traccia “Love Puts a New Face” è esplicativa a riguardo.
La musica riflette quindi questi sentimenti, oppure irradia la piena e matura coscienza sociale e politica della protagonista, meno incline a scendere nel personale rispetto agli anni di gioventù. Il profumo di jazz dilaga inesorabilmente, la chitarra ed il pianoforte acustici arretrano, affogati nel mix. O più spesso assenti poiché Joni si diverte qui colle tastiere elettroniche, il synclavier credo, data l’epoca. La bionda orchestra personalmente e perfettamente le stratificazioni sintetiche, le quali si mischiano coi jazzisti in azione sugli strumenti tradizionali, in un mix di rara e riuscita promiscuità. La classe regna sovrana e c’è sempre il prodigioso soprano di Shorter a dire l‘ultima parola. Le melodie si contorcono imprendibili, seppur familiari specie per chi ha seguito l’evoluzione artistica della canadese verso la ricercatezza sonora e tematica.
Su “Lead Balloon” vi è addirittura un botta e risposta fra chitarre elettriche ritmiche in piena distorsione fra lei e il maestro dei maestri Michael Landau. In mano sua finisce persino la chitarra basso, in tre dei degli undici brani.
In “Apologies” la divina se la prende soavemente col suo grande Paese adottivo, notoriamente la “democrazia” più aggressiva, guerrafondaia, ipocrita, materialista, bigotta, violenta e spietata al mondo.
In “Face Lift” e nell’atmosferico, fascinoso finale “Tiger Bones”, dato l’arrangiamento assai scarno, si ascolta con particolare evidenza la speciale chitarra (elettrica) che la Roland (mi pare) ha affidato alla Mitchell in quegli anni: un marchingegno che cambia la tonalità alle singole corde per via elettronica, così da non dover smanettare ogni volta con le chiavi sulla paletta, ovvero tirarsi dietro un arsenale di chitarre diversamente accordate. Ma non solo: su quell’aggeggio si può settare l’indirizzamento nel panorama stereo su ciascuna corda!
Così si riescono ad apprezzare, nei brani citati, i cantini a destra, le due corde medie a sinistra e le corde basse al centro! Che figata! (come diceva ironicamente mio nipote da ragazzino, quando mia sorella gli annunciava che sarebbe venuta la sua insopportabile nonna a tenergli compagnia…).
E’ il disco più ricco di accompagnamenti “sintetici” di Joni Mitchell, il che non toglie un grammo di calore e fascino alla sua musica, immortale e impossibile da clonare. Bach la benedica e le renda sempre più lieve la vecchiaia, visto che il destino gliel’ha conciata ben incasinata, poverina.
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