Finite le foto d’autore dei precedenti album, nel 1994 l’artista americana torna a dipingersi le proprie copertine, nell’occasione mettendo pure una cornice attorno al suo volto corruccciato, appesa ad una parete indaco (…indigo!). Chissà se è un montaggio o si è proprio fotografata un suo quadro già in casa, decisamente suggeritole dal Van Gogh. Ispirata al pittore finnico lo è anche la canzone eponima, messa come quarta traccia, quindi… ci siamo.
Facezie, l’importante è che anche quest’ennesima opera della canadese naturalizzata californiana è come al solito degnissima di ascolto e di collezione. E’ finito intanto il lungo contratto con la casa discografica Geffen e contemporaneamente il suo matrimonio con Larry Klein, che però rimane e rimarrà suo produttore, arrangiatore e bassista, a vita. La crisi matrimoniale viene ovviamente vissuta e raccontata nell’album, in particolare nella traccia “Last Chance Lost”.
La Mitchell cinquantenne di questi anni ha messo a punto da tempo, ed ora domina perfettamente, un certo suo stile compositivo, colla chitarra pizzicata alternando una coppia di ricercati accordi, mentre la sua voce vi sguazza sopra e fa quel che vuole, arricchita di cori e contrappunti sempre opera della sua ugola.
Ciò genera una certa ripetitività, ma quel pizzicare e quel gorgheggiare sono così squisiti che si è ampiamente sopra la media, anzi si rimane al vertice per quanto riguarda il settore “femmine cantautrici”. La solita schiera di musicisti losangelini di classe provvede a rivestire l’album di sonorità sofisticate, interventi strumentali in punta di forchetta., senza disturbare troppo la manovratrice.
Mi stuzzicano una cover di James Brown (!) intitolata “How Do You Stop”, naturalmente stravolta, e poi la sunnominata “Last Chance Lost”, edificata su accordi gravi della sua chitarra, smollata più che mai verso tonalità più basse dello standard, alla ricerca di cupezza e tristezza, sicuramente richiamate dalla presente sua situazione sentimentale. Magistrale pure la pianistica “Not to Blame”, che descrive amaramente una certa violenza maschile sulle donne.
E’ comunque la chitarra acustica a dominare nuovamente gli arrangiamenti, come già era avvenuto nel precedente “Night Ride Home”. Ma qui la qualità delle canzoni è ancor migliore, pur nella particolare malinconia del momento.
Straordinario l’episodio conclusivo “The Sire of Sorrow”: grandi parole umanitarie, gran sax di Wayne Shorter a contrappuntare con delle stilettate sugli acuti che fanno male, a seguire le liriche. Sette minuti interi di un’amareggiata e pessimistica Joni che si mette a nudo ancora una volta e fa dialogare le sue tante voci, per la nostra riflessione e il nostro piacere.
La mia riconoscenza verso questa artista è infinita e mi sorprendo ancora ad emozionarmi intensamente quando, per l’ennesima volta, risento queste profonde musiche di somma ispirazione, maestria e comunicativa umana.
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