Coordinate spazio temporali alla ricerca della “perfect pop song”

La scelta, decisamente felice, di allungare un paio di biglietti eurici al buon Alessandro (per una volta senza approfittare neppure per un attimo della sua proverbiale disponibilità) in cambio del disco di Josh Rouse, la devo alla lucida penna “Socratica”.

Chi è Alessandro? Penna socratica?

Certo, scusate, come potete saperlo... Alessandro è il titolare del benedetto negozietto vicino all’ufficio. Uno dei pochi rimasti a fronteggiare il burrascoso mare di un mercato travolto dal download globale, ostinato sostenitore delle musiche che ama, prima ancora che pusher favorito.

Ma l’altra domanda è invece davvero bizzarra, se non siete dei nuovi arrivati: si tratta di Socrates, il recensore DeBasico che ci ha regalato decine di pagine perfette. Dotato di un fiuto particolarmente efficace che gli consente di individuare il talento pop tra centinaia di facce, nella vastità di una folla babelica. E di una speciale predisposizione nel descriverne i frutti.

Insomma, nella recensione di Socrates di “1972” (2003) scoprivo che il disco dispensava “Dieci canzoni dieci di raffinato, fantasioso, ispirato cantautorato...”. Come se Rouse affondasse nella data del titolo una sonda per estrarre lo spirito di un’epoca e declinarlo nel suo personale stile.

Tracciando una coordinata temporale nel percorso verso l’eterna chimera della perfetta canzone pop.

Così non ho esitato di fronte alla bella copertina di “Nashville”: in che direzione si era snodato, quel percorso?
Il titolo sembra indicare una seconda dimensione, questa volta spaziale, utile a tracciare la rotta.

Nashville è stata città d’adozione del Rouse per dieci anni, dopo un girovagare che l’ha portato a lambire più stati. Teatro anche di un matrimonio finito.

Ma questo disco è tutto fuorché una prevedibile cartolina spedita dalla città madre del country.

Spiazza sentire, piuttosto, echi di un’attitudine inglese: qualche traccia di Smiths, in certe chitarre, (“Winter In The Hamptons” dove anche la voce cede a tratti ad una inclinazione Morrysseiana) l’eterea densità di atmosfere che rimandano ai Prefab Sprout. Mentre qui e là si proietta l’ombra lunga, ma alleggerita in trame sempre cristalline, di un rock di matrice seventies. Un po’ Rolling Stones acustici, come se usciti depurati da “Some Girls”, incontrassero appunto i Prefab (“Saturday”). Un po’ il vecchio Neil Young, nell’andamento del pianoforte che tratteggia “Sad Eyes”, ad esempio. Prima della coda esplosa in cori e archi che la chiude.

Ma la voce di Rouse è in grado di fornire una versione personale ed aggiornata dell’ibrido che presenta. E’ una voce misurata che non rinuncia a farsi dolente ed espressiva, ma rifugge l’enfasi.

Che traccia melodie “naturali” e mai banali. Una delle caratteristiche che percorrono tutto il disco e a tratti sorprendono per l’apparente facilità di tanti, piccoli, momenti quasi perfetti.

Come misurata e attenta risulta la produzione di Brad Jones che dosa la sostanza sonora in un equilibrio che sfiora spesso l’ambita perfezione formale.

Un disco soffice, che vive di sfumature. Destinato a ripetuti ascolti che sveleranno i dettagli di un lavoro ad primo sguardo omogeneo. Forse più di quanto dovrebbe.

Perché se la meta che questo songwriter errabondo (oggi domiciliato in Spagna) insegue è ancora la stessa, altre coordinate andranno tracciate.

L’orizzonte sul quale brilla luminoso l’irraggiungibile astro della perfect pop song è infatti destinato a spostarsi continuamente, mentre ci spingiamo nella sua direzione.

Ma in fondo il tragitto è spesso la vera meta del viaggio.

E per quel che mi riguarda ci sono in “Nashville” molti buoni, semplici, motivi per percorrerlo più di una volta.

In attesa della prossima tappa.

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