Quando iniziarono a metà degli anni settanta, i californiani Journey erano un gruppo rock come tanti, ben preparato musicalmente ma privo di focus compositivo e di vera personalità. All'uscita di questo loro ottavo album (siamo nel 1983) viaggiano invece a pieno vento in poppa e sono diventati uno dei più seguiti e venduti act mondiali. Cosa è successo e come sono arrivati a questo? Attraverso quattro progressivi cambiamenti, uno per ogni album a partire dal quarto.

La prima svolta, all'epoca del quarto disco "Infinity", è l'ingaggio di un cantante di ruolo dalla straripante emissione vocale, a nome Steve Perry: un arricchimento inestimabile anche se un indubbio e problematico condizionamento. La seconda avviene col successivo lavoro "Evolution" ed è l'assunzione di un nuovo e migliore batterista, nella persona del maestro Steve Smith. Il terzo valore aggiunto è il passaggio di mano della produzione, dall'inglese Roy Thomas Baker all'americano Kevin Elson, più bravo a pilotare la voce e i cori di Perry nell'empireo melodico e questo succede nel sesto lavoro "Departure". L'ultimo, indovinato input è l'arrivo del tastierista, e soprattutto notevole compositore, Jonathan Cain a sostituire il dimissionario membro fondatore Gregg Rolie, in occasione del settimo album "Escape".

Ad ognuna di queste svolte di carriera avevano corrisposto milioni di dischi venduti in più, nonché rapide scalate nella considerazione e notorietà internazionale. "Frontiers" invece presenta la stessa formazione del precedente disco e nessuna ulteriore novità: ormai l'approccio musicale ed il suono Journey sono completamente formati ed affermati, si vuole solo insistere per la strada maestra imboccata.

Dotati come sono di un frontman con stile e doti canore tanto spettacolari quanto esposti ad eccessi e pacchianerie, i Journey si sono con lui trasformati nei Queen d'America; non certo nel senso di somiglianza stilistica fra il loro hard pop rock e quello di Brian May e soci, ma piuttosto nel fatto che, esattamente come i quattro inglesi, ora anche questo quintetto viene percepito in maniera radicale: o si ama profondamente la loro edulcorata proposta o la si vive solo come pacchiana e quindi non li si sopporta.

A parte la debordante personalità vocale sia di Mercury che di Perry, un altro fatto che accomuna i due gruppi è la notevole disomogeneità di valore fra le canzoni di uno stesso album: si va dalle melodie epocali ai riempitivi belli e buoni, fino alle ciofeche di relativo gusto. A me sta bene: preferisco trovare in un album tre canzoni entusiasmanti e il resto mancia, piuttosto che imbattermi in una compatta, discreta, piacevole collezione di canzoni tutte ben fatte, senza cedimenti ma tutte mediocri.

"Frontiers" non sfugge a questa regola: resta per cominciare negli annali del rock melodico americano l'inestimabile seconda traccia "Send Her My Love" in cui tutto è perfetto, dall'incipit di cassa e bordo rullante di Smith a preannunciare un elegantissimo incedere ritmico, all'atmosferico e grandioso, melodicissimo riff chitarristico di Neal Schon; dal rigoglioso e romantico lamento amoroso di Perry al canto della riverberosa solista di Schon nel solo centrale, vera canzone dentro la canzone.

Svolge poi locale funzione di cose tipo qui da noi "Questo piccolo grande amore" o "Tanta voglia di lei" la mitica "Faithfully", quinto brano del disco e creatura esclusiva del tastierista Cain, ai tempi continuamente e languidamente attaccato al telefono colla bionda mogliettina durante le lunghe tournée del gruppo in giro per il mondo. "I'm forever yours... faithfully" canta la voce massimamente afrodisiaca di Perry, giurando eterno amore alla donna lontana. Il tempo  passa e fa cambiare le cose, anche se le canzoni restano e questo è uno dei casi... nella realtà Cain divorzierà di lì a qualche anno dall'oggetto di cotanta devota ballatona pianistica dal clamoroso riscontro, risposando felicemente un'altra. Buona la seconda, anche per lui.

Ai Journey è sempre piaciuto da morire il numero d'apertura "Separate Ways", quasi sempre presente in concerto ma che invece personalmente trovo assai tedioso: il ritmo inventato da Smith è inconsueto ed originale ma farraginoso, il ritornello è telefonato, i gorgheggi di Perry sovrabbondanti. Non mi convincono neanche "Back Talk" ancor più spigolosa e "Chain Reaction", per la sua aria scontata e kitch.

Molto elegante invece la canzone che intitola l'album, grazie ad un riff di chitarra pregno di classe, squisitamente accompagnato in up-tempo dal creativo Smith. La stessa cosa non succede in "Edge Of The Blade": il giro di chitarra è drammatico e idiosincratico, ad introduzione e caratterizzazione di un numero hard rock di maniera nel quale Perry mostra di non divertirsi molto.

Di grande pregio invece la terza ballata del disco "Troubled Child", nella quale chitarrista e tastierista mostrano di essere fatti l'uno per l'altro: la melodicissima solista del ricciuto Neal si adagia sopra gli arpeggi di sintetizzatore del longilineo compagno come panna sopra una coppa di gelato, per un giro a tempo di walzer sul quale anche il nasuto Perry non può esimersi da sfoderare la sua emissione più fertile. Ci mette del suo anche il solito Smith, il quale per il ritornello organizza un creativo spostamento di accenti sui suoi tamburi tale che pare la canzone cambi di tempo, anche se così non è.

Il resto è nella media Journey, buono ma non trascendentale. Il disco si merita le quattro stellette in fondo grazie alle sue tre ballate: è accaduto spesso nelle opere di questo gruppo.

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