Nonostante sia sempre stato un estimatore di musica classica, per molto tempo ho ritenuto aliena alla mia conoscenza una corrente di questo genere molto particolare: quella contemporanea. Parlando con gente comune, ma anche con amici che il conservatorio lo avevano frequentato (e che perciò avrebbero dovuto avere una maggiore apertura mentale), mi ritrovavo di fronte ai soliti luoghi comuni: "Eh, ma quella è musica strana.Tutta stonata, con gli strumenti che suonano "a caso". Solo quelli che frequentano determinati ambienti e con la puzza sotto il naso la ascoltano". Nonostante tutto, alla fine la curiosità ebbe la meglio: armatomi di pazienza e del materiale giusto cominciai l'ascolto (mai avrei potuto fare scelta migliore) e mi accorsi che, per quanto potesse sembrare strana all'inizio, quel tipo di musica aveva una propria grammatica, una struttura e, una volta metabolizzata, riusciva a trasmettere emozioni esattamente come l'altra musica "normale" che ascoltavo. L'effetto è simile al trasferirsi improvvisamente in un paese straniero del quale non si conosce la lingua: lentamente le orecchie si abituano a quelle flessioni delle labbra e a quei versi che paiono tanto strani, comprendendo infine come essi siano un tramite per delle parole, esattamente come il proprio idioma madre.

Esempio lampante? Questo album. Composto e realizzato quasi totalmente con sintetizzatori analogici (eccezion fatta per le voci e la sezione fiati), intriso di minimalismo (Terry Riley in primis), non ci si trova mai di fronte a una musica fredda, geometrica. Tutt'altro. Premuto play la sensazione è quella di essere in una specie di giardino segreto dove la natura è viva e rigogliosa. Improvvisamente si prova una sensazione di familiarità, quasi fosse un posto visitato nell'infanzia e poi dimenticato in cui nulla, però, pare sconosciuto o minaccioso. Anche le stranezze o le eccentricità sono accettate con piacevole curiosità e così, quando subentrano le voci, un po' "jazzy", un po' etniche e dall'andamento cubista, ci si lascia ammaliare quasi fossero i canti di ninfe liete per il nostro ritorno dopo tanto tempo. Per i più arditi ascoltatori tutto ciò può materializzarsi in "Existence in the unfurling": 11 minuti di pura meraviglia nei quali tale lussureggiante linguaggio compositivo trova il suo massimo compimento. Per i più pigri consiglio "Rare things grow", almeno per un assaggio di questo ottimo prodotto. L'escursione è finita, vi lascio con una domanda: gli strani e gli alieni sono questi compositori quando utilizzano un idioma sonoro così strano e astruso oppure i veri alieni siamo noi quando tappiamo le orecchie, non volendo fermarci per tentare di capire questa lingua tremendamente affascinante, ma altrettanto sconosciuta?

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