Sveglia alle 4. Di mattina.

Ramponi luccicano sotto la tenue luce artificiale di pile morenti e pregustare il faticoso arrivo in cima è inebriante: praticamente ci vado solo per questo motivo. Ma sono stato costruito in modo stronzo e così, quando l’ultimo sasso arriva e non mi resta che guardare in giù, raramente riesco a godere il paesaggio. Penso, coglione, alla prossima salita che mi aspetta perché so che tra poco dovrò scendere. Non riesco, testa di cazzo, a godere a pieno del presente. Mentre lascio riposare il fumante cd la sento prendere forma e infine sempre più nitida negli occhi l’immagine di un rollercoaster.

Adrenalinico: non quelli allestiti per la fiera paesana nel piazzale dove solitamente dormono ordinate, al costo di 1 euro all‘ora, file di quattro ruote. Quelli, al contrario, dove c’è il cartello gigantesco sopra i tornelli. Che vi ricorda che se ci lasciate le penne per una pausa troppo lunga del cuore sono solo cazzi vostri. Sono quasi giunto in cima dopo un’estenuante piano inclinato ed oramai sono pronto per l’imminente discesa. E’ questo il momento più bello e non i successivi ghirigori a velocità assurda con rimescolamento di budella che se solo avessi mangiato qualcosa prima... Il godimento è massimo proprio lassù. Non posso sapere se sarà violenta e veloce oppure un onesto, lento e progressivo, declino. Ma più ascolto questo disco, più ho la certezza di essere al cospetto del loro apice e, riponendolo alla lettera K, penso che una grassa dozzina d’anni per arrivarci sia un tempo tutto sommato giusto.

La sensazione viene suffragata non solo dagli ingannatrici ascolti ripetuti, ma soprattutto dalla generica e tiepida freddezza che “Poetry For The Poisoned”, uscito 40 giorni fa, ha riscosso tra i vari siti specializzati.

Da lontano, rimpicciolita in pochi sparuti pixel, potrà anche parere una merda colossale questa cover: una di quelle tamarrate alla Royo che dio ce ne scampi. Ed invece dopo l’ascolto del cd devo ammettere che riguardandola attentamente assume i connotati del rovente vin brulè con scoppiettanti castagne al seguito. Due donne in fredda posa. I lineamenti sono belli, eleganti e ben proporzionati ma si intravedono solo in quanto graffiati e rovinati da congegni meccanici che affiorano sotto la pallida cute. Colori scuri e pennellate violente per le chiome vorticose ed i contorni sfumati del ritratto. Le donne rappresentano la ricerca della melodia. Tortuosa e comunque poco lineare: il trademark del gruppo da “The Black Halo” in poi. Quei graffi meccanici sono profondi e incarnano la voglia di sperimentare abbracciando altri generi. Il divano, se così si può definire il posto dove quel tondo groviglio di chiappe e gambe si poggia, è invitante quanto un letto di chiodi. Insomma melodia si, ma non a buon mercato. Questa cover vi avverte che il bel culetto a mandolino mezzo scoperto della copertina di “The Fourth Legacy” è lontano, ormai sfuocato sulla linea dell‘orizzonte.

Dando per scontata, e spesso così non è, un’ottima produzione del suono e la qualità tecnica di strumentisti e cantante vorrei delineare a grandi linee il disco. Con mio grande giubilo viene abbandonato definitivamente il power. Accantonato persino il lato orchestral/gotico di “Ghost Opera” in favore di un sound complessivamente arcigno con sparuti, ma ficcanti, inserti growl ed elettronica. L’estremizzazione nel singolo apripista “The Great Pandemonium”. Pur nella sua violenza fa intravedere quell’eleganza melodica di cui sopra. Ho particolarmente apprezzato inoltre la ridotta durata dei pezzi e di conseguenza la non comune capacità di saper sintetizzare in un lasso di tempo modesto una struttura solida. Spesso poggiata su riff, voce e sezione ritmica, piuttosto che su cori ripetuti ed assoli.

Consiglio l’ascolto, prima di un eventuale acquisto, di “The Zodiac”: rifacimento sonoro all’omonimo serial killer statunitense dal quale è stato tratto pure un bel film di Fincher. Un pezzo normale di classico heavy metal, capace tuttavia di mettere in mostra la maturità acquisita dalla band con un sound in perfetta simbiosi con il testo. Sinistra musica, inquietante e melodicamente appagante grazie allo stacco netto tra strofe e coro. Lo stesso discorso si potrebbe sviluppare per molte altre canzoni del lavoro, ma non è certo mia intenzione mitragliare titoli che finirebbero nel dimenticatoio. Spero solo che l’immagine data all’album sia quella di un cd valido nel complesso ed eterogeneo.

Difficile magari ad un primo ascolto, ma comunque addolcito da un paio di lenti di valore nei quali si mescolano con comprovato mestiere e professionalità le voci di Simone Simmons e Roy Kahn. Che il disco sia curato lo si capisce soprattutto dai dettagli. Il mero sfogliare del booklet elegante; la capacità di valorizzare al meglio gli ospiti ritagliando strofe sulla base delle loro ugole così diverse e la decisione di cominciare con un bel singolo muscolare e di chiudere agli antipodi con una rivisitazione ostica e riuscita di “Where The Wild Roses Grow” di Nick Cave.

ilfreddo

Elenco tracce e video

01   The Great Pandemonium (04:22)

02   If Tomorrow Came (03:55)

03   Dear Editor (01:18)

04   The Zodiac (04:00)

05   Hunter's Season (05:33)

06   House on a Hill (04:15)

07   Necropolis (04:17)

08   My Train of Thoughts (04:07)

09   Seal of Woven Years (05:11)

10   Poetry for the Poisoned, Part I: Incubus (02:56)

11   Poetry for the Poisoned, Part II: So Long (03:23)

12   Poetry for the Poisoned, Part III: All Is Over (01:03)

13   Poetry for the Poisoned, Part IV: Dissection (01:57)

14   Once Upon a Time (03:47)

15   Where the Wild Roses Grow (03:59)

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