In questa occasione, ad oggi la più recente (2020) in quanto a repertorio inedito, lo storico gruppo di Topeka non riesce ad acchiapparmi più di tanto… Ciò costituisce, per quanto mi riguarda, una mezza doccia fredda, dato che il lavoro subito precedente “The Prelude Incipit” (2016) mi aveva semplicemente entusiasmato, risultando ai miei padiglioni auricolari uno dei migliori dischi dell’ultimo quinquennio, uno dei loro più riusciti, forse il migliore di carriera.

Che è successo? Niente: è giusto cambiato di nuovo il tastierista ma i suoni rimangono perfetti, gonfi e stratificati e gli strumentisti suonano in perfetta coesione, sobri e magniloquenti nello stesso momento. Il violino svetta più che mai da solista la maggior parte delle volte, lasciando a chitarre e tastiere quasi le briciole. Le voci sono divine, curatissime, con l’odierno cantante che non fa mai rimpiangere quello storico, andatosene correttamente in pensione per esaurimento del fiato (non come Gillan o Plant); ‘sto tizio, all’anagrafe Ronnie Pratt, ha certo meno carisma e physique du role rispetto al focoso Steve Walsh che fu, ma acchiappa con poco sforzo tutti i suoi acuti e anche più ed il suo timbro, se fa perdere un pelo in grinta alla resa dei Kansas, l’arricchisce di rotondità e morbidezza.

Ed allora? È semplicemente venuta meno quell’ispirazione, l’inventiva magica nelle composizioni e negli arrangiamenti, la forma smagliante di quell’opera precedente… Accontentiamoci, che in un disco dei Kansas c’è parecchio da sentire, da introitare, da approfondire. In particolare il lavoro del boss Phil Ehart (è anche “ragioniere” dell’impresa Kansas, e con lui i conti tornano sempre…), che ci fa ascoltare cosa vuol dire essere un batterista progressive semplicemente perfetto, estremamente potente e creativo senza essere mai sborone o freddo. Mi piace più del povero Neil Peart, quello dei Rush, il che è tutto dire. Più invecchia e meglio suona.

Massimo, dico MASSIMO rispetto per questi settantenni (non tutti, ma per buona parte) che ancora girano le arene sparandosi un centinaio di concerti l’anno, e non un anno ogni cinque come fanno i Rolling Stones ma TUTTI gli anni. Speriamo che questa loro insperata, eccellente stagione da tardi brontosauri, tornati vispi e concentrati come non mai, possa durare ancora a lungo… Incognite ce ne sono, visto che sono stati recentemente abbandonati dal chitarrista e produttore Zak Rizvi, che purtroppo aveva anche il ruolo di attuale compositore principale per loro.

Album nella media per loro, ben lontano dall’infamia ma senza lode, quindi da sette. Tre stelle e mezza.

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