Puzza di alcool e altre nefandezze.

C'è il pavimento che appiccica sotto i piedi scalzi e sporchi.

Mozziconi ovunque e gente collassata l'una sopra l'altra.

Ci sono spirali di fumo nell'aere e c'è una luce soffusa, oscura, che inghiotte ogni cosa. Ogni persona, ogni individuo, diventa una piccola caramella gettata nel nulla. La musica è alta e distrugge ogni cosa. Sono i Kap Bambino. Caroline, praticamente anoressica o giù di lì e i suoi capelli tendenti all'arancione, che gorgheggia e grida, rantolando tra i mozziconi  abbandonati. Quelle spirali creano nuvole di tantissime forme e colori. Ogni luce diventa un piccolo spiraglio di nulla. Ed ogni battito. Ogni battito elettronico diventa un battito del cuore.

I Kap Bambino suonano proprio così. Come un rave che viene portato avanti con convinzione. Dopo un tot molti si perdono, come in guerra, storditi da una sbronza e dal fumo, ma si lasciano comunque trasportare dal suono. Sono una festa senza fine che si squarcia in un tramonto.

Meno violenti degli Atari Teenage Riot e meno geniali/artisti dei bravissimi Crystal Castles, ma ascoltarli durante un abbiocco è una condanna. Ti obbligano a ballare. Distruggono gli abissi con un pezzo straordinario come la bella e scatenata "Dead Lazers" (non a caso scelta come singolo) e con "Blond Roses", un pezzo che suona come una sinfonia di Game Boy sotto acidi. Altre volte, loro stessi sembrano diventare gli abbioccati del party, con riempitivi poco convinti come un'altalenante "Blue Screen", che nonostante i giri di synth piuttosto potenti suona come una tamarrata piuttosto innocua, o una "Human Pills" che vorrebbe essere un incrocio tra gli You Love Her Coz She's Dead e le Eraser Errata, finendo con il girare sulla stessa linea "melodica". Per fortuna che "Batcaves", cattiva al punto giusto, ravviva un po' le cose, e una "Acid Eyes", molto bella e distruttiva al punto giusto , che ricorda i momenti più ballabili e ispirati della poetica di Alice Glass, salvano un po' certi momenti morti. Per non parlare di una scheggia che è l'ebrezza pura nell'equilibrio tra punk ed elettronica spinta, ovvero "Red Sign", che suona come la versione pop di un qualsiasi scenario infernale di Alec Empire

Quello che è certo, è che se "Blacklist" dovesse finire, per puro caso, nel lettore durante un "tranquillo festino", statene certi: c'è il rischio che ci scappi pure il morto. La poesia del pogo è tutta qui, in un album cattivello, scorbutico ed imperfetto, ma incredibilmente irresistibile. 
E sappiate che certi passaggi ("Dead Lazers" in primis), potrebbero trasformare il banchetto della comunione del cuginetto, in un devastante party sottoacido con conseguenze inaspettate. L'importante è rischiare. 

Carico i commenti... con calma