Procuratevi un gong, e sistematelo in giardino. Rientrate in casa, e radunate quanti più oggetti vi capitano sotto mano: di vetro, di cartone, di metallo, di legno, di gomma, di plastica. Già che ci siete, aggiungete un paio di microfoni. Adesso chiamate cinque-sei amici (o amiche). Quando arrivano nel vostro giardino, incaricatene due di percuotere il gong con gli oggetti radunati; ad altri due consegnate i microfoni, che serviranno a catturare il suono prodotto; e gli ultimi due amici (amiche) siederanno dietro a una postazione a manovrare, ciascuno, un filtro e due potenziometri. Il suono risultante sarà diffuso da 4 altoparlanti agli angoli del vostro giardino. OK, cominciate a suonare, e andate avanti per 26 minuti.
Tutto chiaro? In caso affermativo, se siete riusciti a immaginare e a realizzare una musica di questo tipo, allora vi chiamate Karlheinz Stockhausen. Se invece la vostra immaginazione, per quanto fertile, non si spinge fino a tanto, allora vi chiamate in altro modo e state leggendo questa recensione.
Quel che è certo è che "Mikrophonie I" è un pezzo geniale, anche se nato da un'idea per certi aspetti semplice: composto da Stockhausen nel 1964, quando dunque egli aveva trentasei anni, fa di un'unica fonte sonora, il gong, un'incredibile generatore di timbri, così che in sostanza il pezzo è un'indagine sulle risorse timbriche del rumore. L'utilizzo di numerosi oggetti che percuotono il gong e la modificazione elettroacustica del suono tramite i filtri e i potenziometri, che intervengono sul suono captato dai microfoni, fanno di questo brano un'originalissima sperimentazione alla ricerca dell'inaudito.
Gli stessi principi saranno alla base di "Mikrophonie II" del 1965, composto per un piccolo coro di 12 voci, organo Hammond, modulatori ad anello e microfoni. Ma è con "Mikrophonie I", in anticipo di quattro anni sul '68, che abbiamo un chiaro esempio di immaginazione (musicale) al potere.
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