Li davo ormai per spacciati. La vaga impressione che qualcosa nei Katatonia stesse andando storto è diventata sempre più una certezza negli anni che hanno seguito la pubblicazione di Dead End Kings (2012), per quel che mi riguarda l'ennesima meraviglia della premiata ditta Renkse/Nyström, che però, per la prima volta nella loro carriera ventennale, marcava un consolidamento anziché che un'evoluzione stilistica vera e propria. A parte un ulteriore ridimensionamento della componente metallica, rispetto a Night Is the New Day non si sono potuti rinvenire quei cambiamenti sottili ma significativi che hanno caratterizzato ogni tappa del loro percorso musicale, soprattutto post-Brave Murder Day. E credo che in qualche modo ne fossero consapevoli, da qui il titolo, quel 'vicolo cieco' in cui forse si sentivano intrappolati.

Ciò che è venuto dopo ha lasciato una scia di perplessità e scetticismo. Nel 2013 hanno dato alle stampe Dethroned & Uncrowned, remake acustico di Dead End Kings: realizzato senza molta cura per i dettagli, un'operazione in gran parte sciatta e inconcludente che avrebbe avuto senso solo come cd bonus per qualche edizione speciale dell'album originale. Nello stesso periodo sono usciti il doppio live Last Fair Day Gone Night, registrato ben due anni prima in occasione del decennale di Last Fair Deal Gone Down (2001), e una nuova edizione di Viva Emptiness (2003) con missaggio ritoccato e tastiere aggiunte. Boh? Non paghi, nel 2014 si sono ripresentati con Kocytean: i fan sanno molto bene quanto sono grandiose le b-side dei Katatonia, e infatti non si è capito il senso di raccoglierne solo una manciata in questa mini-compilation per nulla esaustiva o rappresentativa.

A peggiorare le cose si sono aggiunte le defezioni, prima del chitarrista Per Eriksson, poi del tastierista di sessione Frank Default (che negli ultimi album aveva avuto un ruolo molto importante nella tessitura dei brani) e soprattutto del batterista Daniel Liljekvist, amico e compagno di viaggio dal lontano 2001. Infine, con l'ottimo DVD/live acustico Sanctitude (2015), si sono fatti perdonare grazie a una scaletta succulenta, oltre che a una reinterpretazione di ben altro spessore.

Ma arrivati al fatidico decimo album, The Fall of Hearts (copertina come al solito a cura dell'inossidabile Travis Smith), ogni cosa è tornata al suo posto come per magia: è chiaro che Renkse e Nyström stavano solo guadagnando tempo per riordinare le idee, fare il punto della situazione e sfornare quello che, ad oggi, è il loro album più massiccio e completo, frutto di una maturità artistica raggiunta in venticinque anni di carriera. Dopotutto loro due sono sempre stati e sempre rimarranno il nucleo creativo della band, e forse non tutti i mali sono venuti per nuocere: da una parte il reclutamento di Daniel Moilanen alla batteria ha dato un'impronta decisamente più tecnica in fase di scrittura, e dall'altra senza il tocco digitale (e ingombrante) di Frank Default hanno potuto rinvigorire il repertorio di riff e intrecci chitarristici, che era andato via via diradandosi.

Beninteso che non si tratta di un (improbabile!) ritorno al doom degli esordi, ma piuttosto di un ampliamento dello spettro di idee: in The Fall of Hearts i Katatonia plasmano e sfaldano la propria materia con una versatilità per loro inusitata, piazzando ballate acustiche, brani più orecchiabili e rockeggianti, le consuete mazzate sulle gengive, e soprattutto quelle influenze (neo)progressive che di recente sembravano solo fare capolino, senza esplodere del tutto. Una sorta di riepilogo, ma anche un misurato passo avanti, con il risultato di quasi 90 minuti di nuova musica (67 minuti + 4 b-side sparse sulle varie edizioni). Il tutto senza sacrificare neanche un briciolo della loro invincibile decadenza, quella fierezza tutta nordica che anche nei momenti emotivamente devastanti (e sono tanti, tantissimi) riesce a risollevarti lo spirito.

Già nel brano di apertura Takeover si percepiscono le prime novità: il minutaggio imponente (almeno per il loro standard di 4 minuti!), le pause e le ripartenze repentine, le impetuose digressioni strumentali... ma sono davvero loro? Sì, al microfono c'è l'inconfondibile ugola di Renkse, che invecchia come il buon vino e continua a cantarci di attese infinite, distanze, promesse, libertà, fuoco e gelo, attingendo dal suo vocabolario un po' ermetico ma evocativo. E poi il ritornello: i Katatonia non sono proprio il gruppo che cerca il ritornello vincente a tutti i costi, ma in The Fall of Hearts ne troviamo a iosa. Subito dopo, Serein si presenta come il brano più ficcante del lotto, decollando con delicatezza per poi schiantarsi in un refrain che falcia tutto. Jonas è ormai da anni perfettamente consapevole dei propri punti di forza, in grado di esaltare l'emotività, l'eleganza e le sfumature della sua voce, a discapito di tecnica ed estensione. Ciò è evidente anche nella successiva Old Heart Falls, dove i Katatonia nel complesso si riconfermano come una band da studio piuttosto che live, con un approccio angolare al songwriting e una cura per i dettagli come al solito maniacale; dinamiche e interpretazioni che forse sul palco perdono un po' della loro efficacia.

Nella ballata struggente di Decima, tra pennellate di mellotron, una desolata chitarra acustica, e soprattutto la voce da angelo caduto di Jonas, si fanno palesi le influenze dei soliti Opeth, con l'unica differenza che gli Opeth di oggi possono solo intravedere col binocolo la poesia e la personalità dei Katatonia. In maniera abbastanza prevedibile, Sanction fa da contraltare coi suoi riffoni, tra i più sinistri che la band abbia mai scritto in almeno un decennio, e un ritornello bello incazzato che ricorda alla lontana Viva Emptiness, salvo poi trascinarsi in un lungo bridge strumentale. A ben pensarci, di rado è capitato di sentire gli strumenti respirare liberamente senza l'accompagnamento del buon Jonas, e in The Fall of Hearts le cose sono cambiate anche in questo senso.

Il cuore dell'album però lo si raggiunge con le monumentali Residual, Serac e The Night Subscriber, poderosi ceffoni in faccia ai detrattori che continuano a sostenere che i Katatonia "fanno sempre la stessa roba". Io dico che un brano proghettaro come Residual nel loro repertorio non lo si trova: una creatura scheletrica, spigolosa, fredda; un lento climax che fatica ad esplodere nel ritornello sommesso. E poi c'è Serac. Vogliamo parlare dell'intro rocciosa e tritaossa? Delle chitarre indemoniate che sembrano tirate fuori da Ghost Reveries? Di Jonas che ora torreggia su tutto e ora si abbandona in una delle sue interpretazioni più sentite? E di come i Katatonia riescano a tenere insieme questi 7+ minuti senza sbrodolarsi addosso? Diciamolo: questi maledetti svedesi si sono appena avventurati nel reame prog-metal, e suonano molto meglio dei vari Opeth o Dream Theater.

E se è vero che Last Song Before The Fade si riallaccia ai recenti Dead End Kings e Night Is the New Day (sebbene il chorus vivace e le tentazioni prog ne risaltino l'identità), Shifts e Pale Flag si pongono un po' come capitoli a sé stanti: la prima caleidoscopica ed eterea (tradita però dall'inquietudine dei testi), la seconda è quanto di più vicino al folk nordico abbiano mai fatto, una solenne pietra tombale piazzata sapientemente prima dell'ultima cannonata. Con la finale Passer i Katatonia condensano tutte le idee dell'album, si destreggiano tra sfuriate elettrizzanti, momenti di vuoto spettrale, declamazioni, saliscendi emotivi, e infine una cavalcata epica a suggellare il tutto. Un autentico devasto. Ma per chi come me ha comprato l'edizione digipak con la bonus track, c'è spazio anche per Vakaren: sarà che le sue trame cupe ma rilassate ricordano Unfurl, sarà l'emozione immensa di sentire Jonas cantare per la prima volta nella sua lingua madre, ma credo funga da perfetta post-chiusura, a mo' di titoli di coda.

I Katatonia smentiscono ogni dubbio che si era insinuato negli ultimi tempi e chiudono un cerchio carburando con ogni probabilità tutta la classe che avevano nel serbatoio; non si poteva chiedere di meglio. Ma questo nuovo corso vedrà un seguito? Chi può dirlo? In cuor mio resta il timore che, dopo dieci album e venticinque anni, sia diventato troppo difficile per loro riuscire a superarsi di volta in volta, e che la fine della mia band preferita si stia avvicinando: mi piace molto leggere tra le righe, e il messaggio che colgo nei testi di The Fall of Hearts non è dei più rassicuranti. Seghe mentali? Lo spero. Per ora mi godo questo capolavoro e spero di incrociarli a Milano il 10 ottobre.

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