Premo play, ma non è un gioco, o meglio, non è il  gioco caleidoscopico, barocco e  pirotecnico di un  Koln Concert o di un Vienna Concert. E neanche l'incontenibile effervescenza bachiana del trio che ci trasporta, con il suo magico tappeto, poco sotto le stelle del jazz. Niente di tutto questo.

Premo play. E ha inizio un lungo addio, un viaggio al termine della notte fatto in punta di piedi, scivolando su una tastiera di neve, appena illuminata dalla luna.

E' la luna di Jarrett, quella che svela, come non mai, la filigrana delle piccole cose, quotidiane, casalinghe. Sempre viste e mai riconosciute. La luna di Jarrett, che agita, senza alcuna magniloquenza, la marea dell'anima.

Un Jarrett timido, mai così muto, fragile, nudo, ma mai così sfrontato. Forse perché innamorato. Disperatamente innamorato della donna che lo ha appena lasciato e alla quale dedica il disco. Fisicamente prostrato: la chiamano "sindrome da affaticamento cronico". Una via crucis fatta di stazioni che passano dal divano, al letto e al pianoforte del suo ranch immerso nella natura americana.

Brani impudicamente d'amore, sintetizzati nell'enigmatica circolarità della dedica: "A Rose Anne, che ha sentito la musica. Che poi mi ha ridato". Rose Anne che poi è la moglie. Mai sentito un Jarrett così. Un sospiro di note per una manciata di standard che vanno da Gershwin a Duke Ellington, magistralmente rivisitati in quello che in realtà è un unico brano straziante. Mai così vicino ai silenzi e ai non detti di Thelonious. Mai così lontano dai fraseggi estroversi e scanzonati di Monk.

Una bellissima lettera d'amore inviata a chiunque voglia leggerla.

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