Ande peruviane, 1985: due alpinisti inglesi, Joe Simpson e Simon Yates (rispettivamente venticinque e ventuno anni) decidono di attaccare la, fino ad allora, inviolata parete ovest della Siula Grande (altitudine 6344 metri), per via diretta, vale a dire con il metodo alpino: senza installare campi intermedi e senza piantare prima chiodi o tirare corde (come prevede invece il metodo himalayano).
E' una sfida durissima, con se stessi e con la montagna, che i due ragazzi riescono a portare a termine con successo, impresa che, di per se stessa, meriterebbe un film. Nel ritorno a valle, però, succede qualcosa: Joe cade e si rompe un ginocchio, non può proseguire la discesa, Simon decide quindi di calarlo a "peso morto", novanta metri per volta lungo la costa della montagna, ma anche qui qualcosa non funziona: uno strapiombo imprevisto e Joe si ritrova sospeso nel vuoto, attaccato all'amico dalla sola corda di sicurezza.
Simon non può sapere se Joe è vivo e morto ma per più di un'ora tenta, a rischio della sua stessa vita, di reggere l'amico e, contemporaneamente, di ancorarasi alla neve fresca sotto i suoi piedi per non precipitare. Quando la situazione si fa disperata Simon si ritrova di fronte ad un bivio: continuare a reggere la corda fino al cedimento delle forze, andando incontro a morte certa o tentare di salvare almeno se stesso? Simon decide di tagliare la corda e, sconvolto dai sensi di colpa, fa ritorno al campo base. Ma Joe miracolosamente non è morto, dopo venticinque metri di caduta è atterrato all'interno di un crepaccio del ghiacciaio. Comincia qui la sua odissea, lunga tre giorni: strisciando sulla neve e "saltellando" sui sassi, senza acqua nè viveri riesce, incredibilmente, a ragggiungere la tenda e la salvezza. Tornato in patria Simon Yates sarà accusato di grave scorrettezza. Joe Simpson per scagionarlo raccontò l'avventura in un libro: "La morte sospesa" (Touching the void), edito in italia da Cda&Vivald, da cui il film è stato tratto.
Non sono appassionata nè di montagna nè di alpinismo, mi disturba la sola idea di dover fare quattro piani di scale senza ascensore, ma raramente mi era capitato di ritrovarmi così coinvolta da un film. La tecnica scelta dall'autore Kevin Macdonald (regista del documentario premio Oscar "Un giorno in settembre" e de "L'ultimo re di Scozia") è quello del docu-drama: vedremo due attori interpretare Joe e Simon, mentre compiono la loro eccezionale impresa, commentata (a volte fuori campo, a volte in primo piano) dai tre protagonisti (il terzo è Richard Hawking, studente inglese reclutato a Lima dai nostri per sorvegliare la tenda fino al loro ritorno), e proprio qui risiede la forza di questo lavoro.
La cinepresa, nella prima parte, si concede campi lunghi, movimenti morbidi e panoramiche maestose e poetiche, per diventare nella seconda parte sempre più irrequieta: movimenti bruschi, ritmi ora veloci ora esasperanti, soggettive e semisoggettivi, a suggerirci la claustrofobia, la disperazione, il delirio e la lotta contro un tempo che passa troppo veloce e le distanze troppo grandi.
Guardando questo splendido film mi sono sentita impotente ed arrabbiata come Simon quando tagliò la corda, disperata come Joe, quando si accorse di essere solo, lui piccolo uomo di fronte alla maestosità crudele di seimila metri di neve ghiaccio e roccia. Con lui ho patito la sete, il dolore, la rabbia, la fame e il freddo.
Anche se sapevo fin dall'inizio come fosse finita la vicende (Joe è ancora vivo per raccontarcela) ho davvero disperato con lui, vedendolo delirare per la disidratazione o quando chiamando Simon non ha udito risposta, ho sospirato di sollievo quando Simon e Richard sono comparsi dal buio per riportarlo alla vita. ("Qui io sono morto, ho perso tutto quello che ero e e che volevo essere. E poi sono rinato".)
Secondo me Joe Simpson è un eroe, e questo è quanto.
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