Non me l'aspettavo; cioè, non mi aspettavo di avere avuto ancora un'altro momento con in mano un nuovo album dei Khanate. Li ho visti sciogliersi e con loro andarsene la mia voglia enorme di vedermeli dal vivo, la mia voglia di testare ancora, e ancora e ancora il mio grado di sopportazione data da questi quattro, autentici folli (forse geni) che mi avevano già torturato, imbalsamato, distrutto psicologicamente con altri 3 lavori, quei 3 lavori che poi sono la loro progressione, il loro modo di descriversi e descrivere ciò che li circonda al mondo intero.

Invece sono qui, con un altro loro monumento in mano, ahimè senza potermeli lo stesso vedere live, ma vabè, già li ringrazio per avermi regalato quest'ultima ora di (non)musica, di destrutturazione, di disperazione, e per avermi fatto provare ciò che ormai non provavo più da quel lontano capture & release (sono passati 4 anni, ma sembra una vita).

"Clean hands go foul" è il male, come del resto lo erano gli altri 3 lavori, è il momento in cui tutto finisce, l'urlo di dolore ultimo di un uomo in fin di vita, sofferente per gran parte di essa, che chiude il sipario con un quasi indemoniato anatema al mondo; è qualcosa di veramente ineccepibile, di mostruoso, di impensabile, nessuno come loro si è spinto tanto oltre, tanto dentro il baratro, tanto oltre le colonne d'ercole di un modo di intendere musica che non ha eguali.

Non c'è musica qui dentro, ciò che in passato avevano fatto qui non esiste, è tutto smantellato, distrutto, non c'è things viral né l'omonimo debutto né tantomeno capture and release, c'è un'evoluzione verso un qualcosa che sta al limite, proviene da quei tre capitoli, ma dopodiché il nulla; c'è un senso quasi romantico di descrivere la fine, e lo si capisce da subito, da quella "Wings from spine" che apre il lavoro: un urlo, note dolenti, che diventano cascate, di rumori, di stridii, di ossessive percussioni martoriate, confusionarie visioni annebbiate dalla voce stridula, sgraziata di dubin, fonte primaria di desolazione e disperazione, una pienezza che non c'era mai stata prima d'ora nella loro musica, dopodiché comincia a crollare, a cadere sotto i loro piedi, e sotto i nostri. Tutto comincia ad immobilizzarsi già dalla nerissima "Clean my heart", forse la traccia più aperta al passato della band, e più consona al genere fatto fin ora dai nostri, fino a quella "Every god damn things" che sarà  ricordata come il brano più pesante (come atmosfere, non come potenza) e asfissiante di tutta la produzione dei nostri: 32 minuti di immobilismo, di passi lenti, di rumori, di urla, di sensazione palpabile di morte, come un'encefalogramma che tutt'ad un tratto diventa piatto, dopo sussulti spaventosi; 32 minuti di lacrime, in cui quasi vedi il nulla, tocchi il niente, e sfiori il male in un vortice difficile da gestire e da sostenere ma che chiude la carriera dei nostri definitivamente, nel silenzio, con urla ancora, e poi, la fine.

I khanate sono questo, 4 ragazzi, uniti a dar vita ad una delle musiche più pesanti mai concepite, e adesso non ci sono più, questo è il canto del cigno, e finiscono qui, con gli ultimi sussulti, per sempre.

Eccessivi, mastodontici, inconcepibili, a volte insostenibili, sono tutto ciò che nessuno ha avuto il coraggio d'essere, e hanno dato al mondo ciò che nessuno aveva il coraggio di dare: Stephen O'Malley, James Plotkin, Tim Wyskida, Alan Dubin, 4 uomini che sono stati in grado di descrivere la morte e farcela assaporare, che sono stati in grado di spingere ancora oltre i limiti di un genere, il doom, ancora più in là, verso territori veramente originali e profondissimi.

Grazie boys...

Ps:. Il cd in questione proviene dalle stesse session di registrazione del precedente "Capture & release", cioè del 2005, e solo oggi ha visto la luce.

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