Ti ingannerà
Ti inquieterà
Solo per farti piacere.
She'll tease you
She'll unease you
Just to please you
È feroce e sa cosa serve/ She's ferocious and she knows just what it takeS.
Ti farà cadere in rovina
Ti lancerà come se fossi un dado
She'll take a tumble on you
She'll roll you like you were dice
Gli occhi di Bette Davis celavano qualcosa di infinitamente ambiguo, di divino ed infernale.
Il suo sguardo emergeva dagli abissi profondi o discendeva forse dagli astri. Nei tuoi occhi il tramonto e l'aurora, semini a caso gioia e disastri. Governi forse ogni cosa?
Ma di nulla rispondi.
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Uscita il 9 marzo 1981, “Bette Davis Eyes” conquista il pubblico e rimane nove settimane consecutive al primo posto della classifica Billboard Hot 100. È il singolo più venduto negli Stati Uniti nel 1981 e il secondo dell’intero decennio, superato solo da “Physical” di Olivia Newton-John. Raggiunge il primo posto in 21 paesi, tra cui Italia, Francia, Germania, Australia e Norvegia.
Nel 1982, la canzone riceve due Grammy Awards: Canzone dell’anno e Registrazione dell’anno. Billboard la include successivamente nella sua lista delle 100 migliori canzoni di tutti i tempi.
Il testo dipinge una donna affascinante e sfuggente, con lo sguardo magnetico di Bette Davis, i capelli di Jean Harlow e il fascino enigmatico di Greta Garbo. Bette Davis, colpita dalla canzone, volle incontrare Kim Carnes per ringraziarla di averla resa parte della cultura pop moderna.
Questo brano ossessionò il mondo per generazioni; la storia che vi racconterò parla solo di una di quelle migliaia di ossessioni.
Quell'estate il caldo era ovunque. Il vento era un soffio algido e rovente, sfilava tra i capelli rendendo tutto più elettrico. Il caldo non era solo nell’aria, era nei pensieri, nelle emozioni, covava sotto la pelle desideri senza freni. Pulsava dentro le vene. L’estate in California non chiedeva permesso: entrava, si imponeva, ti faceva sudare anche i pensieri. Manolo lo sentiva, quel caldo, come una febbre che non voleva guarire. Ma non era solo il sole a bruciare. Era lei.
Kim Carnes.
La prima volta che la sentì fu per caso, in un diner sulla costa, mentre puliva i tavoli e cercava di ignorare quella sua vita. La radio gracchiava, poi arrivò quella voce. Roca, graffiata, come se avesse vissuto troppo e cantato ancora di più. “Mistaken Identity”, diceva il DJ. Manolo si fermò. Il tempo si fermò. Tutto si fermò.
Da quel momento, non fu più lo stesso.
Comprò l’album il giorno dopo. Vinile, copertina opaca, lo sguardo di Kim che sembrava attraversarlo. Lo ascoltò in loop, sdraiato sul letto, con la finestra aperta e il vento che si portava da lontano essenze di mare e promesse. Ogni traccia era una porta aperta, ogni nota, un passo verso di lei.
Non sapeva chi fosse davvero. Non l’aveva mai vista dal vivo. Ma la sentiva. La sentiva ovunque. Nelle strade bagnate dalla pioggia improvvisa. Sospesa tra le ombre illuminate dai neon dei locali notturni. Nelle donne che passavano davanti a lui con occhiali scuri e sigarette accese. Kim era ovunque, eppure da nessuna parte.
Governava ogni Cosa. Ma di nulla rispondeva.
Cominciò a cercarla.
Non con mappe, non seguendo le sue tracce biondo platino, ma inseguendo quelle sensazioni, seguendo quel gelido avvio di synth e quella gola arsa da notti insonni e nicotina.
Seguiva la musica, i racconti, le voci.
Si diceva che avesse una casa segreta nei pressi di Sarasota, in Florida. Che ogni tanto apparisse nei club, cantando sotto falso nome. Manolo diventò un’ombra. Entrava nei locali, si sedeva in fondo, ordinava bourbon e aspettava. Ogni sera, una canzone dell’album diventava realtà. “Draw of the Cards” lo spingeva a rischiare. “Break the Rules Tonight” lo faceva entrare dove non avrebbe dovuto.
Una notte, la vide.
O almeno, credette di vederla.
Era in un locale chiamato “Velvet Mirage”. Luci rosse, fumo, jazz. Una donna bionda, occhiali scuri, smoking nero, quella voce roca ed inconfondibile. Cantava una cover di Kim, Manolo rimase paralizzato. Il cuore gli batteva come un tamburo tribale. Voleva avvicinarsi, dirle qualcosa, toccarla. Ma non lo fece. Lei sparì tra la folla.
Da quel momento la sua ossessione divenne dolce e torbida. Kim non era più solo una cantante, ma un miraggio. Manolo cominciò a scrivere. Lettere interminabili sulla sua bellezza, tanto affascinante quanto spietata, che finiva per non spedire. Disegnava il suo volto su fogli sparsi, cercando di catturare qualcosa che non aveva mai visto davvero.
Poi arrivò quella sera.
La più calda dell’estate. Il cielo sembrava liquido, e l’aria profumava di gelsomino ed elettricità. Manolo seguì una voce, un’indicazione, un istinto. Si ritrovò dopo una passeggiata davanti ad una villa misteriosa sulla spiaggia. La porta era socchiusa. Dentro, un giradischi suonava “Mistaken Identity”. Entrò.
La casa era vuota. Ma piena di lei.
Dischi ovunque. Fotografie. Occhiali da sole vintage. Nel guardaroba lo smoking di lamè nero indossato da Kim nel videoclip. Un profumo nell’aria che non riusciva a decifrare. Era come se Kim fosse lì, appena andata via. Come se lo stesse aspettando. Manolo si sedette sul divano, chiuse gli occhi, e lasciò che la musica lo avvolgesse. Ogni traccia dell’album diventava un ricordo che non aveva mai vissuto. Un bacio rubato. Una corsa sotto la pioggia. Un addio sussurrato.
Poi, la voce. Improvvisamente lei compare e le sussurra all'orecchio:
“Ti aspettavo. Ci hai messo una vita ad arrivare. Nel frattempo mi sono fumata una stecca di Camel e scolata mezza bottiglia di Johnnie Walker.
Aprì gli occhi. Era lì. Kim. O qualcosa che le somigliava. Forse un sogno. Forse realtà. Non parlò. Non si mosse. Lei si avvicinò, gli sfiorò la guancia, gli mise in mano un vinile. Autografato. Dentro, una dedica: "A chi cerca, ma non sa cosa. – K."
La luce era morbida, dorata. Il giradischi continuava a suonare, e la casa sembrava respirare. C’era un letto disfatto, le lenzuola leggere profumavano di un aroma levigato di pelle e vaniglia. Manolo non ricordava di essersi sdraiato, eppure il suo corpo ne portava i segni. Sul collo, un’impronta di rossetto rosso fuoco. Calda, precisa, indelebile.
Sorrise. Non aveva bisogno di altro. L’aveva trovata. O forse si era trovato. In quella musica, in quell’estate, in quella dolce e torbida ossessione.
E la voce di Kim continuava a cantare.
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