Rischia di suonare irrispettoso il meravigliarsi per l'apertura mentale di un'artista data la veneranda età della stessa, ma le intenzioni sono pure.
È un mondo che va tanto veloce questo, anche dal punto di vista artistico e sociale. A chi non capita di provare un senso di inadeguatezza o di sentirsi scaduti, insomma, quegli autosabotaggi interni comuni a molti, penso.
Mentre gli autosabotatori temono di afferrare qualcosa, la classe 1953 Kim Gordon afferra il 2024, lo osserva accennando una smorfia di stupore e lo azzanna.
Ho letto di studi sul cervello umano che evidenziano quanto sia arduo per un individuo che supera un certo numero di anni adattarsi al nuovo, alla scoperta, al mettersi in discussione. Temibile. Perché scrivere dell'età di Gordon? Perché sono da invidia Gordon e la sua età, altroché.
E allora la Diva della gioventù sonica si affida per la seconda volta al produttore Justin Raisen, suo compagno di avventure nel precedente No Home Record, e i due stravolgono ancor più di prima le aspettative dei fedeli.
In The Collective mancano gli appoggi sicuri e le uscite d'emergenza, simile ad un Gaspar Noé.
Ci sentirete suoni tipici presi dalla trap, dal phonk tanto in voga su TikTok, dall'hip hop. Non temete però; lei si muove e dilata a piacimento, sventra la contemporaneità. Non si tratta di un'artista piegata ai trend di mercato, ma di suoni piegati alla mercè dell'austera. E lo fa con l'integrità che l'ha contraddistinta per quattro decadi, quindi merita fiducia.
Le chitarre appaiono brevemente in impeti di follia e i testi sono più cut-up, liste di oggetti e riferimenti alla quotidianità, alla sessualità che ricordano alcuni antichi episodi dei Sonic Youth.
Il disco incede sicuro e minaccioso tra i beat creati da Raisen e l'ispirazione del romanzo The Candy House di Jennifer Egan, caro a Gordon. Il distopico incontra la realtà dell'algoritmo, questo il tema. Si tocca anche il femminismo in I'm a Man che risulta la più convincente.
Questo rosa che ingoia tutto riesce ad inorgoglire secondo me anche i vecchi fan, che sfido a non ammettere la validità straniante di quest'opera.
Justin Raisen ha lavorato, tra i tanti, anche con John Cale. Quest'ultimo fu recensito dal buon MauroCincotta66 tra queste pagine in un bellissimo scritto sull'album POPtical Illusion, e ricordo che il recensore fu lieto della sperimentazione contemporanea di Cale. Ecco, io ne sono lieto oggi.
Non ci si accorge abbastanza spesso di quanto male facciamo a noi stessi sabotando. Magari ci si prova a progredire, come Gordon fa spontaneamente in The Collective.
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