Infetto era il seme del Re Nero e putrido il grembo della Stella. Quali figli potevano mai venire alla luce?

Aspre progressioni elettriche e stasi eroinomani convivono in un sound ispido, vertiginoso, in cui psicodrammi di malato egotismo stendhaliano maturano come lerci frutti venefici sulle irte rupi della carne.

Timbri gutturali, voci roche risucchiate da fetidi gorghi dove primitivi inni animisti vengono celebrati tra acidi sfrigolamenti di braci psichedeliche.

Dissonanze di Velvet Underground catatonici sono sgranate da uno space-rock fradicio di sincopi ultraterrene e sentori esotici traspaiono in filigrana a pachidermiche escalation strumentali.

Capitani di ventura affondano i loro battelli nel ventre di foreste vergini palpitanti di brade percussioni e stranianti voci campionate sono infilzate sui pali di un blues corrotto.

E il filo di eteree tastiere svolazza imparziale tra folgori hendrixiane e ritmiche selvagge.

E pozze elettrostatiche a-là My Bloody Valentine sono spazzate da monsoni infernali vagamente kraut.

E ancora e ancora, in un incessante gioco di specchi deformati da una psichedelia febbricitante.

Infetto era il seme del Re Nero e putrido il grembo della Stella. E i figli vennero alla luce elargendo con ingordigia luride e torbide carezze.

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