Alla fine di un lungo viaggio, riporti tutto a casa, quello che avevi con te alla partenza e quello che è venuto nel durante.

E se i Clash, da New York, tornarono a Londra con “Sandinista!”, i King Hannah tornano a Liverpool con “Big Swimmer”.

Fu un disco epocale “Sandinista!”, è un disco epocale “Big Swimmer”, se questo primo quarto di nuovo secolo può essere definito un’epoca.

Poco importa che gli album epocali siano anche e sovente rivoluzionari e conflittuali – il primo Presley, il Dylan della svolta elettrica, l’alieno Hendrix e qualsivoglia Stooges fino ai Clash di quel triplo salto mortale – in apparenza “Big Swimmer” di rivoluzionario e conflittuale ha meno di niente, ancorato alla pratica di un rock solidamente chitarristico che a Neil Young deve tutto e a un’idea di condivisione tipica del blues come del jazz, prima che fosse libero.

Vicende di sessant’anni fa, in ogni caso.

I King Hannah condividono nient’altro che la loro quotidianità e lo fanno raccontando storie minime, banali come e più della mia, perché una volta che si spegne il riflettore anche la stella del rock smette di brillare.

Potrebbero essere l’ennesima incarnazione del disadattato che condivide la propria nullità in Facebook e Instagram.

Per loro e mia fortuna, li assiste il talento che rende quelle storie minime e banali una poesia.

Perché sì, Hannah che mi invita a cenare in cucina e si scusa per aver bruciato il pollo, rapita da una canzone di John Prine passata per radio, e si scusa ancora e ancora per avermi rovinato la serata, ora ha per me la stessa dignità artistica di un Dylan intento a raccontarmi la variegata combriccola di passaggio lungo Desolation Row o una Smith che rivendica orgogliosamente che Gesù è morto per i peccati di qualcun altro, di certo non i suoi.

I testi scritti da Hannah e Craig sono bellissimi, nella loro scheletrica ed essenziale linearità da esercizio di analisi logica nell’abbecedario, e Hannah è una narratrice impareggiabile, metà Nico chanteuse con i Velvet Underground metà Carolyn “Morticia Addams” Jones.

Per Hope Sandoval e PJ Harvey, serve riavvolgere il nastro d’un paio d’anni.

E comunque, a proposito di rivoluzioni fatte a suon di canzoni, una cosa che ho imparato quarant’anni fa è che, se voglio fare una rivoluzione, quella rivoluzione la principio dentro casa, meglio se davanti allo specchio del bagno.

È solo una mia sensazione, ma i King Hannah sono un gruppo rivoluzionario e “Big Swimmer” un album “politico” come e più di qualsiasi album abbiano suonato i Rage Against The Machine.

Punto e a capo.

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Due anni fa “It’s Me And You, Kid” chiudeva “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me” come meglio non si poteva, introduzione acustica che sfociava poi in un vortice di elettricità e monotonia, i King Hannah giocavano a fare i Loop, sacrificando il rumore alla melodia, con un organo di sottofondo che era ed è una delle cose più belle ascoltate negli ultimi anni e quella chitarra in distorsione che svaniva crepitando e chiudeva le danze ma lasciava buone sensazioni per il futuro.

“Big Swimmer” comincia esattamente da lì, come un amico che incontri nuovamente dopo alcuni anni di separazione e non puoi fare a meno di incappare con piacere nel “come eravamo” e nel “dove eravamo rimasti”: incipit acustico, bellissimo – per chi ne ha voglia, sono presenti su YouTube alcune esibizioni acustiche dei King Hannah, davvero molto belle – Hannah, scarpe da tennis di ramonesiana memoria abbinate ad un elegantissimo vestito rosso shocking, in nemmeno due minuti tiene una piccola lezione di filosofia spicciola su volontà, obiettivi e legge morale che afferro decisamente meglio di quanto il professore tentava di inculcarmi circa le idee di tale Immanuel Kant – era Springsteen quello che sosteneva che si impara più da una canzone di due minuti che in vent’anni passati a sedere dietro un banco, giusto? – l’ingresso di Craig che disegna un riff tanto facile da mandare a memoria quanto efficace nella sua lirica elettricità, poi ancora una veste acustica per il finale, preannuncio di quiete e rumore che torneranno a rincorrersi in tanta parte dell’album.

E una compagna da scoprire, Sharon Van Etten.

Comunque sono a casa, riconosco i paraggi, le sensazioni sono familiari, i King Hannah sono tornati per regalarmi altri quaranta minuti di ottime vibrazioni emotive.

Poi Hannah e Craig mi invitano a cena – Hannah è intenzionata a preparare il suo rinomato pollo arrosto – sono appena tornati da un lungo viaggio negli Stati Uniti e hanno tante cose da raccontare, quello che hanno fatto e visto, di come sono cambiati.

Perché, quando torni da un lungo viaggio, riporti tutto quanto a casa ma, inevitabilmente, qualcosa in te è cambiato. Soprattutto se torni da New York, reduce da un lungo giro di concerti negli Stati Uniti, fino a due anni fa servivi ai tavoli di un bar in un buco perduto nel sobborgo di Liverpool, ma grazie a Dio il padrone ti ha licenziato perché non sopportava gli artistoidi come te e pure perché in fondo in fondo aveva intuito che ce l’avresti fatta. “New York, Let’s Do Nothing”, i King Hannah sono cambiati, pure tanto.

Hannah e Craig mettono a letto il pupo, il pollo è nel forno, ci spostiamo in soggiorno, mi intimano di non fare troppo rumore e iniziano a raccontare sottovoce.

Di un materasso che galleggia sull’acqua, sembra quasi che voli, non è una tavola da surf, è proprio un materasso, ci capisco poco, forse avevano bevuto. Poi mi sovviene il materasso sul ciglio della strada e il passaggio indifferente e mi convinco che tra il paesino dove vivo e New York non esiste differenza, a parte qualche milione di teste e qualche migliaio di materassi abbandonati.

Questo è niente.

“Sei pronto a sentire il resto?” sussurra Hannah, guardando verso la porta della camera dove dorme il pupo.

Hannah smette di cantare, parla, o meglio racconta.

E in venti minuti, quelli che corrono tra “Milk Boy” e “Lily Pad”, attacca a raccontare storie a cui sono talmente assuefatto da provare inquietudine e disagio, il tipo che lancia un martello contro un bambino in mezzo alla strada e poi scoppia a ridere – è vero, già cantato, da Johnny Cash fino agli Electric Peace, ma era diverso – la violenza e l’arroganza spacciate come spettacolo quotidiano, l’alienazione metropolitana e consumistica.

Poi non ti stupire se per qualcuno, ed è sempre uno di troppo, “Bowling a Columbine” e “Elephant” sono solo film.

E due compagni da incontrare nuovamente, Bill Callahan e gli Slint.

Ci spostiamo in cucina.

Hannah torna a cantare, insieme a Craig.

Un loro caro amico, Davey, dice che, anche se sei tornato nella tua casa sicura, quell’inquietudine e quel disagio ti accompagneranno per un bel pezzo di strada, poi si stancheranno della tua determinazione e ti lasceranno in pace.

Ci sono tanti spacciatori di filosofia spicciola che ti possono cambiare la vita, anche a cinquant’anni, conosci John Prine?

Sentito nominare, e basta.

Accendiamo la radio, a breve c’è uno speciale su di lui, ascoltiamocelo insieme, farà bene a te come fa bene a noi.

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È finita con un pollo bruciato, mangiato con gusto, e la promessa di mettermi in casa qualcosa di John Prine.

E grazie, sempre, agli spacciatori di spicciole verità troppo semplici per essere accettate come Davey, Craig e Hannah.

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