Un incontro tra Black Sabbath e Mazzy Star. Così casa Relapse descrive il debutto dei suoi King Woman, un gruppo troppo malvagio e tenebroso per essere shoegaze, troppo etereo e sognante per essere doom. Doomgaze si potrebbe definire.

"Create In the Image of Suffering" mette da subito a nudo l'anima del gruppo, quella della front-woman Katrina Esfandiari, già voce dei Whirr nella loro versione più crepuscolare, quella dell'ottimo EP "Around" del 2013, la quale intona litanie spettrali su sfondo di riff psichedelici e atmosferici. Una voce tormentata che decanta versi che sviscerano anni di conflitti interiori, dubbi religiosi e instabilità mentale.

Subito "Utopia" mette le cose in chiaro, questo è un disco fatto di fuzz, riffoni massici e una voce dai toni lugubri ai confini tra la vita e la morte. Kristina prende l'eredità shoegaze dei suoi precedenti progetti e la inquina con il lato più heavy e violento della malinconia, spianando la strada a "Hierophant", apice indiscusso del lavoro, lo spettro di un leviatano di 8 minuti che si erge a elegia dell'introspezione e del dubbio e che dimostra che tutta la band funziona come una macchina ben oliata e non vive della sola prova vocale di Kristina ma di una capacità di saper mettere ogni suono al posto giusto.

"Create In the Image of Suffering" vanta una produzione ottima, offerta da Jack Shirley, già produttore di Deafheaven, Oathbreaker e Wreck and Reference, che da forma e anima a otto tracce che incarnano il lato più nero e crepuscolare della musica di chi si guarda molto le scarpe.

Shoegaze is doomed

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