Dopo un primo disco scandalosamente derivativo (con "Get It On", il brano di punta, vero e proprio assemblaggio del riffone di "Black Dog" con la progressione orientaleggiante di "Kashmir"), i losangelini Kingdom Come per questo secondo lavoro del 1989 aggiustarono un poco il tiro, mettendo gli Zeppelin un minimo sullo sfondo e producendo un hard rock certamente ancora all'ombra del Dirigibile, ma quanto meno senza scopiazzature dirette di precisi passaggi strumentali e vocali dell'impagabile repertorio di Page e soci.

Manco a dirlo, 'sto disco si risolse in un mezzo fiasco, quando invece il primo aveva venduto molto bene, proiettandoli nel giro grosso e suscitando invidia e giustificata rabbia da parte di molti colleghi. Punizione biblica, quindi, per questo quintetto partito forte e subito arenatosi. Peccato, perché "In Your Face" è disco tostissimo e valido, zeppeliniano ma non più di tanti altri, con un bel songwriting, suoni potenti e valvolari, irresistibilmente vintage. La sezione ritmica viaggia a martello, le due chitarre giostrano in maniera semplice ed efficace, il leader Lenny Wolf 'planteggia' alquanto, ma un suo stile molto drammatico e wagneriano (lui è tedesco) in definitiva riesce ad imporlo. L'album inizia col riff urgente e assassino di "Do You Like It" sul quale si avventano subito batteria e basso a non dare respiro, fino alla fine. Bell'esordio, ma ancora meglio suona la successiva "Who Do You Love" inaugurata da una colossale schitarrata in accordo di quarta, sul quale si innestano un riffone madornale e poi la voce altissima di Lenny. Una tastiera simil mellotron rende il tutto estremamente drammatico, c'è odore di "Kashmir" ma con classe, variazioni, intelligenza.

I suoni sono veramente ciclopici e bombardoni (il povero Bonzo avrebbe sicuramente detto "Hey, fatemela suonare!") per un hard rock formalmente perfetto, certo non inventato da loro ma che gusto ancor oggi spararselo nelle orecchie a volume dannoso. Regge bene il tempo perché è settantiano al 100%, prodotto alla grande, caciarone ma pulito, coi suoni troppo giusti. "The Wind" gode di una pregevole intro, con un micidiale giro di basso sulla cassa 'in quattro', e si sviluppa poi in maniera più raccolta e lirica. Un altro brano notevole è "Highway 61", che segue il sempre spettacolare schema preambolo acustico/esplosione elettrica: attacca un dobro delizioso, Lenny ci gioca sopra una strofa e poi caccia un urlo da accapponare la pelle, mentre scoppia l'apocalisse, chitarroni in lungo e in largo, galoppate ritmiche, urla lancinanti, tutto molto convincente fino all'acquietamento e all'epilogo, nuovamente affidato al solo dobro. E così fu.

Il buon Lenny Wolf è da una vita rientrato in Germania, tiene vivo il progetto Kingdom Come con musicisti del suo paese, gli va riconosciuta una buona vena compositiva, un'asburgica cocciutaggine, ed una voce che Robert Plant alla sua età già se la era giocata da un pezzo. Importanza e ruolo storico dei Kingdom Come? Zero virgola zero, ma se cercate un disco rock blues (più rock che blues) con le palle, senza tante smancerie, con gli assoli ben asserviti all'economia dei brani, brevi e lancinanti, con una voce che spacca, con la batteria che tuona, col basso grosso come un armadio, e se infine la puzza del Dirigibile non vi compromette il giusto godimento da rocchettari di tutto il resto, ma anzi ve la acuisce, questa roba va giù che è un piacere.

Carico i commenti... con calma