Il muro dietro Kurt Vile, in copertina, fu dipinto per l'occasione nella sua Philadelphia.

Riassumeva un po' i contenuti dell'album: viaggi, titoli e frasi sparse, valigie, la custodia rigida della sua chitarra con su scritto don't know why I Ever Go Away, occhiali da sballato, un divano racchiuso in un cuore e theres a place for my friends.

Un filantropo locale ha deciso, quest'estate, che quei graffiti non avrebbero dovuto più esistere. Decisione presa, pare, contro la volontà del proprietario del muro. I graffiti sporcano, attirano delinquenza, altri vandali e disgrazie. Lo stronzo ha ritenuto di dover dare due mani di bianco.

Nonostante tutti i filantropi e gli stronzi del mondo Wakin On A Pretty Daze resisterà. La pittura di Kurt Vile, la sua tecnica fatta di fingerstyle e tangibile scazzo è troppo materica per essere sciupata dalla patina del tempo, troppo intrisa di epos per essere violentata dalle secchiate di vernice che le tendenze musicali del momento gli getteranno addosso, di decennio in decennio; il folk dimesso e maestoso di Too Hard - otto minuti - si inserisce così esplicitamente nella tradizione, da fugare ogni ragionevole dubbio. La tradizione di cui parlo è ovviamente quella immortale, istituzionale, del songwriting nordamericano classico. Questo disco è nato classico e non può passare.

Si prenda per esempio il disco di quest'anno dei War On Drugs, il suo vecchio gruppo: le canzoni si aggrappano alle mammelle di nonno Bob, zio Bruce e zio Neil, mediano il tutto con dei riverberi giovanilisti e plauso di tutti al capolavoro; per quanto Suffering sia una gran bella ballata, io ritengo che fare così sia fin troppo facile. In Kurt Vile c'è qualcosa di immediato e di spontaneo nell'approcciarsi alla tradizione, e per restare in tema di piano Wurlitzer, Shame Chamber del Nostro si passa in culo tutta la freschezza-ricercata-nel-classico dei War On Drugs, senza il minimo sforzo apparente. Così il tour de force elettroacustico da sette minuti di Was All Talk trasuda epos cantautoriale mentre si snoda su una base percussiva elettronica, senza il minimo imbarazzo; un viaggione, direbbe qualcuno delle mie parti; in Air Bud si sente pure del synth. Certe notti la radio che passa Kurt Vile sembra avere capito chi sei, e gli ammalianti dieci minuti di Goldentone chiudono l'album in zona Harvest, all'insegna del classico più classico, con voce femminile e un finale zen elettrico che ha del miracoloso. Se non si fosse capito che cosa intendo per epos nel rock, poi, si prenda il solo di KV Crimes. Niente è di maniera, tutto è ispirato e pare che le droghe non c'entrino - Kurt è un ragazzo tranquillo, padre di famiglia e sposato da dieci anni - ma a giudicare da alcune sue interviste smascellate, da certe sue eloquenti occhiate al nulla, e dalla ragheggiante Pure Pain, probabilmente da quella sua chioma old school emanano ancora mistici profumi.

Wakin On A Pretty Daze è un disco perfetto, maturo, fuori da ogni logica come è fuori da ogni logica aprire le danze con un dinosauro da nove minuti e mezzo che a un certo punto entra l'elettrica e diventa Zuma.

Consapevole di non rendere giustizia a Kurt Vile nel fare confronti, direi comunque a chi non lo conosce che il suo cantato richiama in particolare il Lou Reed più apatico e il J Mascis più tranzillo - cioè il J Masics di sempre. La pigrizia vocale intrinseca gioca un ruolo fondamentale nello svuotare di retorica e stucchevolezza le sue prolisse, ridondanti e vagamente megalomani ballate: tipo The Kids di Lou Reed, in Berlin; siamo lì, ma con meno pretese.

I graffiti, comunque, ritorneranno: hanno deciso di ridipingerli. Segno evidente che ciò che è destinato a restare, resterà.


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