Conosciuti, ad oggi, per essere una delle band di punta del metal italiano, capaci di risollevarne il nome nel lontano 1992 con l'album "No Limits", a scadenza precisa di due anni dal precedente "Freeman" i nostrano Labyrinth rilasciano sul mercato il nuovo "6 Days to Nowhere", disco con il quale i nostri tornano prepotentemente in pista, mostrandoci ancora una volta di essere vivi e vegeti e ancora capaci di sfornare un grande album.

Certo nel corso del tempo sono cambiate numerose cose, prima delle quali l'abbandono di Cristiano al basso, suonato in questa sede (peraltro davvero bene) dal cantante della band, mister Roberto Tiranti che si trova a suo agio sia nello scrivere le linee di basso sia quelle melodiche; passiamo ora al genere: cambiato qualche cosa? Bhè si, bisogna dire in verità che la base progressive/power è rimasta intatta, ma questa volta i nostri hanno esplorato anche campi più estremi, aggiungendo growls (eseguiti dal batterista Matt), blast-beats al fine di rendere gli episodi del disco più aggressivi ed accattivanti, ma passiamo all'analisi del disco.

L' apertura viene affidata a "Crossroads", un pezzo di estrema facilità, molto lineare, dotato di buon feeling e groove, che riesce nel compito arduo di aprire il disco grazie a delle melodie azzeccatissime, ma anche grazie ad un'interpretazione vocale che come al solito risulta essere di primo piano. La successiva "There Is A Way" mi ha invece lasciato un pochino perplesso, non tanto per la bellezza della canzone (a mio parere innegabile) ma più che altro per una somiglianza a vari episodi del precedente disco (mi viene da pensare ad esempio a Meanings). A seguire troviamo invece uno dei migliori pezzi del disco: "Lost" viene aperta da una batteria velocissima che sostiene dei riffs di chitarra che si vanno ad assopire per lascciare poi il posto ad un arpeggio di chitarra classica al quale si lega la voce delicata di Tiranti, ma è al secondo 39 che qualche cosa cambia, compaiono infatti adesso scrams vocals e una batteria che tiene tempi velocissimi e di una violenza mai ascoltata su un disco del gruppo.

Arriviamo così ad un altro grande momento dell' album, "Mother Earth" che ci riporta su lidi progressive, questa volta contaminato da un hard rock davvero elegante e gradevole. Davvero di rilievo il lavoro svolto da Cantarelli e Gonella alle chitarre che vanno a creare di riffs semplici ma estremamente efficaci, che svolgono egregiamente il loro lavoro. A seguire le canzoni cominciano a tornare su livelli, pur sempre buoni, ma più normali, senza più toccare le vette delle precedenti due tracce: troviamo dunque la semi-ballad "Waiting Tomorrow" lodabile soprattutto per il cantato e i cori alla quale segue la cover del pezzo dei Beatles "Come Together", nel quale si può apprezzare la ricerca di personalità in una cover così tanto difficile.

Il resto si muove più o meno come detto su territori meno pregiati ma comunque buoni che fanno di questo disco un buon lavoro, forse lontano dai capolavori labirinthyani ("No Limits", "RTHD", "Labyrinth"), ma pur sempre lontano dai bassi livelli qualitativi di alcune band del nostro paese.

Promossi ancora una volta, bravi ragazzi.

Carico i commenti... con calma