Il nome Alcatraz, a Milano, è sinonimo di tempio della musica live. L’Alcatraz è sopravvissuto alla profonda crisi economica portata dalla pandemia, che ha rischiato di vederlo sparire, rendendolo invece immortale. Durante quei mesi di silenzio forzato, è stato sede di un importante concerto in assenza di pubblico: “Live from The Apocalypse”. Protagonisti della singolare sessione, i Lacuna Coil, che tornano qui, stavolta in presenza di pubblico, dopo esattamente dieci anni.
Ad aprire la serata i Nonpoint, band nu metal alla prima apparizione sui palchi europei, dopo un quarto di secolo di attività e un ultimo album risalente ormai al 2018.
Si parte. Il pubblico, che ha riempito buona parte del locale, apprezza l’esibizione della band di Fort Lauderdale, capitanata dal carismatico Elias Soriano. Una manciata di hit dalla potenza notevole in poco più di mezz’ora di musica e viene passato il testimone.
Dopo le dovute modifiche al palco, si attende l’arrivo dei protagonisti della serata in un Alcatraz gremito, a pochi biglietti dal sold out. Tra una chiacchiera e l’altra, una birra fresca e una panoramica del locale, che offre un bel colpo d’occhio con il grande logo dell’ultimo lavoro della band situato al centro della scena, si spengono le luci e si sentono le grida. I nostri guadagnano il palco alla spicciolata. I primi ad entrare sono il batterista Richard Meiz e il neoacquisto Daniele Salomone, subentrato un anno fa a Diego Cavallotti, addetto alle sei corde. In coda, due dei tre fondatori, Marco Coti Zelati e Andrea Ferro, che aumentano il volume della folla, in estasi dopo poco per l’ingresso della regina della formazione, Cristina Scabbia.
L’impatto estetico del quintetto è come al solito di grande effetto: trucco bianco con dettagli horror sui volti di chi imbraccia gli strumenti, un frac alternativo, con tanto di logo rosso fuoco sulla schiena per la voce maschile e un vestito di tulle lilla, accompagnato da anfibi, per la frontwoman.
Fuoco alle polveri con “Layers of Time”, dal penultimo lavoro “Black Anima”, come “Reckless”, che sarà eseguita poco dopo.
Cristina saluta il pubblico e lo fa con grande emozione, perché il tour europeo parte da casa e, testuali parole: “la sensazione è quella provata durante un saggio di fine anno, al cospetto di amici e parenti e di tutti coloro che fanno parte della famiglia allargata dei Lacuna Coil". Il pubblico ricambia l’affetto e celebra le belle parole con il solito calore. Cristina da continuità al discorso annunciando il brano successivo: “In The Mean Time”. Arretra verso la batteria per un sorso d’acqua e si accorge che dal mixer parte la base di “Delirium”, main dell'ottava pubblicazione in studio. Un’occhiata interrogativa a Meiz, che mantiene la schiena dritta e le bacchette ben salde, un’altra complice ad Andrea Ferro, poi spallucce per entrambi e sotto con il pezzo “intruso”. L’esecuzione è magistrale e dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, quanto gli ingranaggi della band siano ben oliati, anche dal punto di vista dei nuovi arrivati.Lo spiegone alla fine del pezzo rassicura anche chi non si era accorto di nulla e diverte tutti, facendosi largo tra lo stupore generale. Perché forse non è così evidente ma non tutti avrebbero saputo gestire un imprevisto con tanta sicurezza.
L’ora che porterà alla fine del live sarà un crescendo di potenza e qualità. Il nuovo lavoro “Sleepless Empire” viene eseguito quasi per intero; tra le altre “Hosting The Shadow”, (senza Randy Blythe dei Lambs of God, presente al fianco di Cristina pochi giorni prima all’Aftershock Festival), “Gravity” e “Oxygen”, la scatenata opening “The Siege”, nonché “In Nomine Patris”, eseguita (in modo impeccabile) per la prima volta dal vivo. L’inedito live è stato accompagnato da un aneddoto che ha regalato ancora sorrisi. Tra i parenti della Scabbia, presenti a bordo palco, c’era anche la nipote, solitamente impiegata presso un’agenzia di pompe funebri milanese. Sul palco, nelle mani della zia, ci sarebbe dovuta essere una croce, che alla fine è rimasta sul carro funebre, dovendo essere assicurata nelle ore successive ad una bara, diretta al camposanto. Più in linea di così, si muore, vien da dire.
Avendo tirato in ballo l’aldilà, la scaletta prosegue con la melodica “I Wish You Were Dead”, fortunato singolo che affronta una tematica di grande attualità e che ha goduto di diversi passaggi in radio, concessi anche da emittenti solitamente poco avvezze a considerare pezzi metal.
Le tracce proposte attingono molto dal passato e non mancano neppure “Spellbound” dall’album “Shallow Life” e “Intoxicated” da “Dark Adrenaline del 2012, “Heaven’s a Lie” e “Swamped”, queste ultime due tratte dalla versione celebrativa per i vent’anni di Comalies”, più dure delle versioni antenate.
Le corde vocali di Cristina sembrano essere state cesellate dal diavolo, parafrasando il titolo della fatica editoriale della frontwoman. Nessun cedimento, un continuo saliscendi in preda a una foga incredibile. Non è da meno l’ugola di Andrea Ferro, che esibisce uno scream mai esausto e a tratti talmente virtuoso da far strabuzzare gli occhi. Niente di tutto ciò esisteva per lui all’inizio della sua avventura, il tempo ha portato consiglio e qualità.
L’Alcatraz è in estasi e non perde occasione di dimostrarlo. Un’unica grande famiglia di appassionati, che vogliono celebrare le origini ma anche la transizione e il futuro promettente di una formazione che ha alle spalle talmente tanti successi, da poter riempire una decina di scalette differenti tra loro. Arrivano come un tuono gli altri episodi provenienti da “Delirium”, ottavo album che ha segnato lo switch verso quella cupezza e potenza propria dei lavori che ci conducono ad oggi. “The House of Shame” la capostipite, poi “Blood, Tears, Dust”. Cristina parla e fa da portavoce della band, ribadendo l’affetto per la sua famiglia di origine e per quella acquisita. Ricorda la madre, perché il 10 ottobre è il giorno del suo compleanno ed è impossibile non dedicarle un pezzo come “Downfall”, eseguito con un trasporto a tratti onirico.
“Nothing Stands in Our Way”, accompagnata dall’inno della band urlato dal pubblico a squarciagola, “We Fear Nothing!”, chiude la setlist regolare e anticipa la volata finale.
A pochi minuti dallo scoccare dei novanta minuti di esibizione, il quintetto saluta e ringrazia, scomparendo tra le tenebre dietro le quinte. Sappiamo tutti che si tratta della solita finta e partecipiamo alla recita intonando, in modo insistente, il sempreverde “We want more!”, tradendo così il word code della serata, che fin lì aveva previsto chiacchiere e complimenti esclusivamente in italiano.
Si chiude con “Never Dawn”, che assorbe tutte le energie rimaste prima dei saluti e dei ringraziamenti da parte della band, che si intrattiene sul palco qualche minuto, chiedendo un selfie con tutti i presenti. “Horns up” e decine di braccia al cielo, per celebrare una performance memorabile.
Ogni show della formazione meneghina offre uno spettacolo unico, tra sacro e profano, horror e sentimento, con un’esecuzione potente e priva di sbavature. Un muro sonoro creato da musicisti affiatati, che vivono il palco in modo dinamico, con scambi di posizione e continue interazioni con il pubblico.
Speriamo sia un arrivederci a presto, che si tratti dello storico Alcatraz o di qualsiasi altra location. Milano è casa e aspetta di riaccogliere a braccia aperte i figli che l’hanno portata con orgoglio in giro per il mondo.
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